Comune di Rovereto

Assessorato ai Servizi Sociali e Sanità

 

Università dell’Età Libera 2010-2011

 

ROSMINI E MODERNITÀ

[CzzC: altro sarebbe il neomodernismo]

LIBERALISMO

            Il liberalismo è un insieme di dottrine, definite in tempi e luoghi diversi durante l'età moderna e contemporanea, che pongono precisi limiti al potere e all'intervento dello Stato, al fine di proteggere i diritti naturali, di salvaguardare i diritti di libertà e, di conseguenza, promuovere l'autonomia creativa dell'individuo. Storicamente il liberalismo nasce come ideale che si affianca all'azione della borghesia nel momento in cui essa combatte contro le monarchie assolute e i privilegi dell'aristocrazia a partire dalla fine del XVIII secolo. Il liberalismo ha contribuito a definire la concezione moderna di società, intesa come somma ed espressione delle varietà e singolarità umane, concernenti sia l'ambito spirituale come la sfera materiale. Dall'inizio del XIX secolo, liberale cominciò a divenire equivalente di "favorevole al riconoscimento delle libertà individuali e politiche".

            John Locke. Il filosofo inglese John Locke può essere considerato a tutti gli effetti il precursore del liberalismo. Nel 1690 Locke, che apparteneva al Partito Whig (più tardi chiamato Partito Liberale), pubblicò anonimo i Due Trattati sul Governo, che contenevano i principi fondamentali del liberalismo classico. Il filosofo britannico sviluppa il proprio pensiero partendo dalla teoria del contrattualismo (già avanzata da Thomas Hobbes e ripresa poi nel celebre Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau). Secondo Locke, nello Stato di natura tutti gli uomini sono uguali ed esercitano i propri diritti di natura (libertà, uguaglianza, proprietà e vita); diversamente da Hobbes però, egli ritiene che lo Stato di natura non sia una condizione di continua belligeranza, ma di convivenza pacifica, in cui tuttavia l'esercizio dei diritti naturali è solo parziale poiché è limitato dal diritto punitivo esercitato discrezionalmente da ogni individuo. Perciò, nell'atto dell'istituire lo Stato civile, gli uomini non cedono al corpo politico alcun diritto, ma lo rendono tutore dei diritti di natura, delegando al Parlamento il potere di emanare leggi positive che regolino l'esercizio della forza a difesa d'ognuno. Le funzioni fondamentali dello Stato liberale divengono quindi quelle di tutelare la libertà, l'uguaglianza, la vita e la proprietà dell'individuo. Inoltre, il pensiero liberale di Locke definisce una giustificazione etica della rivoluzione, il diritto di resistenza che ciascun individuo può e deve esercitare quando lo Stato agisce in contrasto con la volontà popolare od in contraddizione con i principi costituzionali.

            Diritti civili, Stato di diritto e costituzionalismo. I diritti liberali per eccellenza sono quelli che oggi vengono chiamati diritti civili: tra essi ci sono la libertà di parola, di religione, l'habeas corpus[1], il diritto a un equo processo e a non subire punizioni crudeli o degradanti. La libertà di un individuo incontra un limite nella libertà di un altro individuo ma non può essere ristretta in nome di valori morali o religiosi in ciò che riguarda la sfera privata dell'individuo. A questi diritti si aggiungono le garanzie a tutela della proprietà privata, riassunte nel detto inglese no taxation without representation (= nessuna tassa senza rappresentanza; vale a dire che solo le assemblee legislative hanno il diritto a tassare i sudditi).

Un altro punto irrinunciabile del liberalismo è infatti lo Stato di diritto: la legge emanata dalle assemblee legislative è l'unica deputata a stabilire i limiti della libertà individuale. Per John Locke, David Hume, Adam Smith e Immanuel Kant le caratteristiche che le leggi dovevano avere per poter essere rispettose della libertà erano:

            * l'essere norme generali applicabili a tutti, in un numero indefinito di circostanze future;

            * l'essere norme atte a circoscrivere la sfera protetta dell'azione individuale, assumendo con ciò il carattere di divieti piuttosto che di prescrizioni;

            * l'essere norme inseparabili dall'istituto della proprietà individuale.

ROVERETO NAPOLEONICA

            Alla nascita di Antonio Rosmini, Rovereto si trovava da circa tre secoli sotto la signoria asburgica, e solo la guerra di successione spagnola aveva turbato gli operosi cittadini roveretani, che in manifatture di seta, come i Rosmini, o nel governo dei fondi, o nelle industrie della carta, della cera o del legname, governati con mitezza, vivevano tranquilli, sebbene poco soddisfatti di fare capo a Trento, sede del principe vescovo, e da secoli porta di entrata ai domini di casa d’Austria, mentre invece, interessi economici e antiche consuetudini portavano i roveretani verso il sud, alla pianura, alla dolce riviera del Garda, dov’era nata la contessa Giovanna Formenti, madre di Antonio. Il passaggio dei soldati francesi di Napoleone non prometteva gran che ai roveretani, ai quali non dispiaceva più tanto l’essere sudditi del Sacro Romano Impero. Essi avevano tentato più volte di sottrarsi a Trento ghibellina, parteggiando per i guelfi, aderendo alla lega lombarda contro il Barbarossa, reggendosi con un proprio statuto, sostenendo valorosamente la signoria veneta, nel secolo XV, come fece quell’Aresmino degli Aliprandi, oriundo bergamasco, antenato di Antonio, difensore nel 1487 del castello di Rovereto. Aresmino era stato Gran Contestabile di Verona nel 1456, per poi trasferirsi a Rovereto nel 1464, dove morì nel 1496. I roveretani si erano poi adattati alla soggezione imperiale, pur sempre conservando nei monumenti, come nella chiesa di San Marco, dove Antonio ricevette il battesimo nel giorno dell’annunciazione di Maria, nel carattere e nel costume, contrassegni inconfondibili della tradizione culturale italiana, cui diedero non piccolo contributo. Infatti i giovani roveretani affluivano di preferenza all’università di Padova, mentre quelli di Trento a Innsbruck e a Friburgo in Brisgovia. L’inclusione di Rovereto nel Tirolo non valse a intaccare la preferenza per l’Italia sia per le ampie autonomie feudali e comunali, sia per preponderante influenza della cultura italiana nell’Austria del ’700, sia per la tollerante politica dello stato patrimoniale asburgico, fedelmente servito dalle migliori famiglie della regione, tra le quali cospicua quella dei Rosmini notevoli per uomini d’arme e di toga, letterati e artisti e per il censo accumulato nel susseguirsi delle generazioni. I soldati di Bonaparte parevano, anzi, sconvolgere le care istituzioni e soddisfare solo qualche raro giacobino, inviso ai benpensanti, come i Rosmini, e alla maggioranza, attaccatissima alle proprie consuetudini e tradizioni.

            Nel settembre 1796, Bonaparte aveva occupato Ala, Rovereto, Trento, ma già il 5 novembre gli austriaci avevano rioccupato la regione, se nonché, dopo Rivoli, il Joubert, con l’esercito francese vi ritorna. Il 20 aprile 1797 gli austriaci sono di nuovo a Trento, e gli appelli del Principe Vescovo, fuggito appena sentito odor di polvere, affinché fossero cacciati i francesi (“razza di gente tanto infesta al genere umano”) furono al momento esauditi. I familiari di Antonio Rosmini guardavano con trepidante scetticismo quello strepito d’armi, auspicando la vittoria imperiale, dato che l’impero era tutrice della religione, di un ordine moderato e paterno nel quale le attività economiche potevano fiorire e quelle culturali svilupparsi. Non si ignorava tuttavia che qualcosa era cambiato anche in queste terre. Giuseppe II aveva emanato parecchie riforme, non tutte condivisibili, come le leggi ecclesiastiche. Leopoldo II aveva molto temperato la legislazione, ma il Tirolo pretendeva che Rovereto gravitasse verso nord. Ma i roveretani ci tenevano a conservarsi distinti dal Tirolo. Clementino Vannetti rimprovera al Tartarotti di aver confuso Tirolesi e Trentini, e al Morrochesi, caduto nello stesso errore scrive nel 1790: “Italiani noi siam, non tirolesi”, ferocemente antitedesco il movimento letterario da esso capeggiato non nasconde la propria avversione: agli antenati dei germani Giove avrebbe detto: “I figli vostri umana abbian figura, / Abbian d’asino poi cranio e natura”. Dieci anni prima, nel 1780, il Vannetti scriveva “noi siamo in Italia e l’accidentale dipendenza dal Tirolo non può farci cambiare nazione né luogo”. F. Frisinghelli, nel 1753, si lamentava dei tedeschi: “… Estrania gente / sol del nostro languir fatta beata”. Cesare Baroni, parente del Rosmini, in una dissertazione dichiara che fin dall’età romana il Trentino fu sempre incluso nell’Italia per natura, lingua e governo”. Anche la biblioteca di Pier Modesto Rosmini, nobile del Sacro romano Impero e patrizio tirolese, offriva al precoce Antonio più libri latini e italiani che non tedeschi o francesi[2].

PANEGIRICO DI PIO VII

            Il Panegirico di Pio VII è il nuovo frutto di tutti gli studi politici, religiosi e sociali, che il Rosmini aveva elaborato tra il 1819 e il 1824. Dalla buona politica deriva la pace, mantenuta col distinguere tra quello che si può concedere e quello che si deve costantemente negare, sacrificando le formalità al bene sostanziale, come appunto attua la politica dei Pontefici, massimi difensori del diritto di proprietà e quindi del diritto pubblico e dell’ordine giuridico internazionale. Essi difendendo la giustizia pubblica, difendono la libertà dei popoli e la causa dei principi; gli usurpatori, al contrario, gli eroi del secolo, badano all’utile falso e violano la proprietà. Il Pontefice è strumento di somma importanza nelle mani della Provvidenza divina e per esplicare la sua azione necessita di particolari guarentigie,quali il rispetto alla “disciplina ecclesiastica” e all’“italica libertà, come quella nella quale la libertà dell’apostolica sede è contenuta”[3].

            «Il 25 settembre 1823 Antonio Rosmini leggeva nella chiesa di S. Marco in Rovereto il Panegirico di Pio VII. Aveva egli visitato pochi mesi prima quel santo Pontefice riportandone profonda impressione, sì che accolse con giubilo l’invito a tesserne l’elogio. Egli doveva averlo compilato già il 15 settembre, come risulta da sue lettere al Tommaseo, all’Abate Cappellari, al Taparelli d’Azeglio e già v’era intenzione di darlo alle stampe. Poco ci rivela del suo stato d’animo mentre scriveva: è lieto dell’argomento e della tessitura; non così dello sviluppo, perché si sente impari alla materia. impropriamente è detto Panegirico di Pio VII: il Rosmini trascende quasi il Pontefice individuo, per trattare piuttosto la grandezza morale propria dei romani Pontefici considerata in Pio VII: questa è la tessitura che lo soddisfa pienamente e che indica la sua inclinazione agli studi vasti e universali»[4].

            Anche il Tommaseo aveva pensato di scrivere l’elogio di Pio VII. Molti elogi videro la luce, piuttosto vuoti nelle loro pretensioni letterarie come quello di Giulio Perticari, o pomposi di retorica da pulpito. Quello del Rosmini è, per vigore di pensiero e meditato entusiasmo, il miglior documento dell’idealizzazione di Pio VII e del guelfismo nella restaurazione. Infatti egli celebra in Pio VII la grandezza del romano pontificato in tutta la sua portata morale e civile, religiosa e politica, insistendo su alcune tesi che il censore si affretta a cancellare. Così: “I principi, come Romani Patrizi sono custodi delle cose sacre, per investitura del Pontefice”., “il sistema pontificale è della sapienza, quello Napoleonico, della mendace utilità, che più vero appellerebbesi dell’egoismo, delle passioni, della barbarie, schiuma il dirò già di tutto il ribollente filosofico sudiciume”, “e veramente delle lotte dei Pontefici con i regnanti furono trovate solo queste tre cagioni: la santità dei matrimoni, la disciplina ecclesiastica, e l’italica libertà, come quella, nella quale la libertà della apostolica Sedia è contenuta. Per questa italica libertà le cure di Pio VII si comprendono … in quello che fece per la franchigia pericolante, la sicurezza e la pace di tutto il mondo, o piuttosto, che nell’alta sua mente viene al medesimo, per eterna giustizia”. Vengono censurate anche le espressioni contrarie alle dottrine che considerano la religione instrumentum regni e completamente cancellata la finale preghiera per l’Italia. In realtà la censura di Milano aveva visto più acutamente che non quelle di Venezia, di Vienna e di InnsbrucK: non solo pochi brani dovevano essere soppressi per “papismo”, ma tutto lo scritto nella sua impostazione e nel suo spirito[5]. La censura austriaca difendeva la memoria di Napoleone per il suo secondo matrimonio asburgico e il “napoleonismo” perché la politica ecclesiastica napoleonica assomigliava parecchio a quella austriaca, anzi il rigore di questa in materia ecclesiastica, ricorda quella della censura napoleonica: il Panegirico incontra ora difficoltà analoghe a quelle incontrate nel 1811 dalla Storia dei primi cento Pontefici del Cesarotti, che si stampava a Firenze nelle Opere dell’Abate Melchior Cesarotti presso Molini Laudi e Comp.

            Rosmini redime il genere dei panegirici sempre a servizio dei vincitori, e polemizza con la più illustre loro prostituzione al dispotismo armato, con il più solenne dei panegirici pronunziati, stampati e dedicati alla gloria di Napoleone, con il Panegirico alla Sacra Maestà dei Napoleone detto nell’accademia letteraria di Cesena il 16 agosto 1807 da Pietro Giordani. In esso il Giordani, purgatissimo letterato, celebrava l’imperatore “Ottimo Massimo Europeo” per le sue guerre vittoriose, per la coscrizione, per l’educazione militare imposta alla gioventù, per il blocco continentale, per l’abolizione del maggiorascato, per l’istituzione del divorzio, per il conferimento di nuovi titoli nobiliari, per la diffusione della superficiale cultura popolare. Di contro Rosmini commemora la “mansuetissima vita del Pontefice e perpetuamente travagliata” che “non rende strepito di umana prepotenza, né ha in sé veruno splendore di invidiate felicità”, è ricca di vittorie “non nei termini di alcuna terra, ma sopra questo e il futuro umano genere”, coronata di “allori che non grondano sangue, ma amorose lacrime e pie”. Il Giordani era arrivato a teorizzare che solo il grande e il forte può essere buono, e a “creder laudabile quella pietà che nasca da cuor grande e forte, non quella che alberga nei deboli”, e su questi fondamenti aveva innalzato Napoleone come il “Fortissimo Benefattore” che ricompone tutta Europa in uno stato “che durerà, quanto il suo nome divino, perpetuamente”[6].

PANEGIRICO E NEOGUELFISMO

            «In una lettera al cardinale Castruccio Castracane del 17 maggio 1848, inviata in copia, per conoscenza, a Manzoni, Rosmini scriveva fra l’altro: “non v’ha dubbio che il Sommo Pontefice deve adempiere i doveri ad un tempo di Principe temporale e Capo della Chiesa; e sarebbe un manifesto errore il pretendere che gli uni siano inconciliabili cogli altri. Questo è quello che vogliono i tristi, quelli che macchinano di spogliare la Chiesa dei suoi Stati temporali”. Ma, rispondendo all’amico da Milano il 23 maggio 1848, Manzoni esprimeva garbatamente ma fermamente il suo dissenso, allorché suggeriva a Rosmini di togliere quella espressione, ‘tristi’ (nel senso ottocentesco di ‘malvagi’), in quanto si considerava egli stesso uno di questi, e cioè uno di coloro i quali ritenevano che “la soluzione definitiva, e probabilmente lontana, possa portare la separazione del potere temporale, per vie e per compensi preparati dalla Provvidenza, e con l’assentimento dello stesso Pontefice”[7]. Di qui, da parte di Rosmini, la tesi della non incompatibilità fra missione religiosa e potere temporale: di lì, da parte del Manzoni, l’auspicio di una soluzione concordata e dunque pacifica della questione romana, in modo da lasciare il Pontefice totalmente libero nella esplicazione della sua missione spirituale, creando nello stesso tempo le premesse per un suo ruolo positivo nel processo di unificazione della nazione italiana. In questo senso – se per ‘neoguelfismo’ si intende il riconoscimento del ruolo incivilitore del pontefice e il rifiuto di relegare la Chiesa ai margini della società, con una lettura riduttivamente ‘spiritualistica’ della sua missione – sia Rosmini sia Manzoni, pur estranei al neoguelfismo propriamente detto, partecipano dello stesso grande movimento di pensiero che caratterizza la cultura cattolica (ma, per certi aspetti, anche protestante) della prima metà dell’Ottocento»[8].

            «Le preoccupazioni della censura austriaca – come emerge dalla analisi dei passi contestati – riguardano essenzialmente l’autonomia del papato, fortemente rivendicata da Rosmini, e l’emergente sentimento nazionale italiano»[9]. Il ruolo di civilizzazione della chiesa e del papato si sviluppa su tre binari che verranno ripresi da Rosmini nel periodo della maturità. «La prima indicazione concerne il ruolo svolto storicamente dai Pontefici nello stabilimento di quello che il Roveretano chiama il “Diritto pubblico d’Europa”; un “diritto pubblico” avviato già “ne’ più oscuri e barbari tempi”, allorché i Pontefici rivendicarono contro i sovrani la liberta dei popoli. All’interno di questo “diritto internazionale europeo” si colloca, come garanzia delle libertà civili, la figura del “Tribunale politico internazionale” al quale, sotto la guida spirituale e morale del Pontefice, dovrebbe essere affidata la regolazione delle controversie internazionali, al fine di assicurare la pace e la concordia fra i popoli. Una seconda grande funzione civile del papato è la promozione e la salvaguardia della pace. La terza grande funzione che il Panegirico attribuisce al Pontefice è quella della difesa dei diritti dei popoli e dei sovrani]»[10].

            «Pio VII è visto da Rosmini come colui che rivendica, di fronte a Napoleone (e, sullo sfondo, non soltanto nei suoi confronti), la “italica libertà, come quella nella quale la libertà dell’apostolica Sedia è contenuta” Espressione, questa, assai ardita, e tipicamente cattolico-liberale (ma, sotto questo aspetto, anche “neo-guelfa” ante litteram) in quanto fondata sulla teorizzazione di una stretta ed anzi inscindibile connessione fra libertà italiana e libertà del Pontefice»[11].

            Così dunque si conclude il Panegirico.

“In quanto a me, per quell’incredibile affetto che a te porto, o Italia, o gran genitrice, innalzerò incessantemente questi devoti prieghi all’Eterno: Onnipotente, che prediligi l’Italia, che concedi a lei immortali figliuoli, che dall’eterna Roma per li tuoi Vicarj governi gli spiriti, deh! dona altresì ad essa, benignissimo, il conoscimento dei suoi alti destini, unica cosa che ignora: rendila avida di liberi voti e d’amore, di cui sia degna, più che di tributi e di spavento: fa che in se stessa ella trovi felicità e riposo, e in tutto il mondo un nome non feroce, ma mansueto”»[12].

            Come non avvertire, in queste parole, un’anticipazione dei temi ricorrenti nella breve stagione del neoguelfismo? Che l’Italia sia la nazione “prediletta” da Dio; che essa eserciti attraverso il Pontefice un primato spirituale tale da renderla capace di “governare gli spiriti”; che quella dell’Italia sia una missione universale di pace, tutto questo sembra anticipare non pochi dei temi che formeranno oggetto giusto venti anni più tardi, nel 1843, del Primato giobertiano»[13].

 

RIVOLUZIONE FRANCESE: STORIA E RAGIONE

            «Il passaggio dal Settecento al mondo moderno fu lungo e graduale. Esso fu rappresentato in sede filosofica da Hegel e Marx. La posizione di entrambi è ambivalente. Hegel è profondamente legato all’idea delle leggi della provvidenza trasformate in leggi della ragione. Hegel afferma che gli individui “cercano di soddisfare i propri interessi, ma in tal modo si compie qualcosa di superiore che è latente nella loro azione pur non essendo presente alla loro coscienza”. L’equivalente hegeliano della “mano occulta” di Smith fu la celebre “astuzia della ragione”, che induce gli uomini a lavorare per raggiungere fini ad essa ignoti. Ma nonostante ciò Hegel fu il filosofo della Rivoluzione francese, il primo filosofo che vide l’essenza della realtà nel divenire storico e nello sviluppo dell’autocoscienza. Lo sviluppo storico equivaleva a sviluppo verso il concetto di libertà. Marx partì dalla concezione di un mondo retto da leggi di natura razionali. Come Hegel, ma questa volta in forma pratica e concreta, egli pervenne al concetto di un mondo retto da leggi che si evolvono attraverso un processo razionale scatenato dall’iniziativa rivoluzionaria dell’uomo. Nella sintesi finale di Marx la storia aveva tre significati, inestricabilmente connessi fino a formare un’unità razionale e coerente: 1) il moto degli eventi, regolato da leggi obiettive, anzitutto di carattere economico; 2) il parallelo svilupparsi del pensiero mediante un processo dialettico; 3) l’azione parallela sotto forma di lotta di classe che riconcilia e unisce la teoria e la pratica della rivoluzione. Ma negli scritti di Marx si trovano molti esempi di esortazioni a una azione rivoluzionaria consapevole. Marx condivideva l’asserzione di Feuerbach, il quale affermava che “I filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in varie maniere, il problema è di cambiarlo”. “Il proletariato – annunciò il Manifesto dei Comunisti – si servirà del suo potere politico per privare progressivamente la borghesia di ogni capitale, e per concentrare tutti i mezzi di produzione nelle mani dello Stato”[14]. Sarebbe stato il proletariato a disciogliere la falsa coscienza della società capitalista, e a introdurre la nuova coscienza della società senza classi. In Lenin, l’accentuazione viene portata dalla “classe” al “partito”, che costituisce l’avanguardia della classe e infonde in essa l’elemento necessario della coscienza di classe. In Marx “ideologia” è un termine negativo – un prodotto della falsa coscienza del regime capitalistico. In Lenin “ideologia” assume un valore neutro o positivo – denotando una concezione istillata da un’élite di capi coscienti dei propri interessi di classe in una massa di operai solo potenzialmente coscienti. La formazione di una coscienza di classe ha cessato di essere un processo automatico, ed è diventato un compito preciso da svolgere. Freud rimane una figura in qualche modo enigmatica. Per educazione e per ambiente egli era un individualista liberale ottocentesco, e accettava indiscriminatamente la comune, ma erronea ipotesi, di una antitesi fondamentale tra individuo e società. Nel considerare l’uomo come un’entità biologica anziché sociale, Freud era incline a vedere l’ambiente sociale come qualcosa di storicamente dato, e non soggetto a un costante processo di creazione e trasformazione da parte dell’uomo stesso. Egli è sempre stato attaccato dai marxisti per aver considerato i problemi che sono in realtà dei problemi sociali dall’angolo visuale dell’individuo, e su questa base l’hanno condannato come reazionario. Quest’accusa, che nei confronti di Freud stesso era solo in parte valida, si è dimostrata ben più giustificata nei confronti dell’attuale scuola neofreudiana statunitense, che suppone che le storture ineriscano agli individui e non alla struttura sociale, e vede nell’adattamento dell’individuo alla società la funzione essenziale della psicologia»[15].

RIVOLUZIONE FRANCESE: INTERPRETAZIONI

            «La Rivoluzione francese, disse Tocqueville, s’ispirò alla “credenza che fosse necessario sostituire il complesso delle leggi tradizionali che regolavano la società del tempo con regole semplici ed elementari desunte dall’esercizio della ragione e dalla legge naturale”»[16].

            «Quel che invece caratterizza la Rivoluzione [francese] quando la intendiamo con la maiuscola e come unica, è di presentarsi quale inizio di un’epoca affatto nuova, quale fuoruscita dell’umanità da una situazione di minorità; e non solo di presentarsi, ma di esserlo, di essere realmente pensata e proposta come tale. L’unità in questo senso è profonda tra la Rivoluzione francese e la sovietica, nonché tra i fatti avvenuti nell’epoca non ancora conclusa che dalla francese prende inizio. Quel che si è detto comporta una definizione dell’idea di rivoluzione, intesa come evento unico: a mio giudizio non esistono più rivoluzioni, ma una sola, in cui si possono distinguere due atti, la francese e la sovietica. Possiamo darla per negazione attraverso l’idea che ne è l’antitesi. Ora, e questo è un punto centrale, che non deve mai essere dimenticato, e che invece viene normalmente trascurato, tale idea antitetica è quella di Provvidenza. L’idea della rivoluzione, finalizzata infatti all’assunzione del governo umano del mondo, si oppone all’idea di Provvidenza, come affermazione del suo governo divino»[17]. [N.d.R. La “mano occulta” di Smith e la “astuzia della ragione” di Hegel, vengono a corrispondere al concetto di Provvidenza del Cristianesimo].

            Augusto Del Noce, nella sua ricerca sulle origini della Rivoluzione francese giunge ad affermare: «La mia idea invece [contraria alla tesi che la Rivoluzione sia stata guidata da un pensiero astratto e utopico] è che una critica adeguata dell’idea rivoluzionaria deve riguardare l’eterogenesi dei fini a cui è soggetta: cioè il fatto che nel suo farsi storia realizza non già qualcosa di diverso, ma l’esatto opposto di quelle che erano le speranze e le intenzioni dei suoi teorici e dei suoi promotori. Ed è proprio in relazione a questa eterogensi che incontriamo l’idea della Provvidenza. Rispetto alle sue definizioni, la più nota ai filosofi è quella del Vico: “ma egli è questo mondo senza dubbio uscito da una mente spesso diversa e alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avean proposti”. Ove, però, l’idea di Provvidenza è indubbiamente intesa in senso ottimistico (Vico guarda alla storia romana): gli uomini agiscono per fini particolari, ma la superiore mente divina piega questi fini umani a strumenti di un disegno universale. Vico pensa a uomini mossi interiormente dall’idea di Dio, per cui, pur avendo in mente come coscienza chiara, l’utile, realizzano di fatto le condizioni per il bene. Nel caso dell’idea di rivoluzione, abbiamo invece uomini che sono mossi non dall’idea di Dio, ma da quella della sua negazione. L’eterogensi dei fini non deve perciò essere vista in positivo, ma in negativo; gli uomini pensano di creare un ordine assolutamente nuovo e assolutamente giusto; ma il risultato della loro azione è la dissoluzione»[18].

            «Comunque i testi robespierrani dicono a chiarissime lettere che la sua rottura con l’enciclopedismo non ha affatto il significato di rottura con l’illuminismo. Non mette infatti egli in alcun dubbio che lo scopo della rivoluzione sia proprio come per gli illuministi l’instaurazione del dominio della ragione, e che ragione significhi progresso»[19].

RIVOLUZIONE FRANCESE E ROSMINI

            «La Rivoluzione francese, nella sua opera di radicale riforma della società dell’Antico Regime, aveva posto il problema dei principi costitutivi della società, in particolare, aveva consentito di studiarne le strutture portanti. La Rivoluzione aveva affermato il primato del legislatore che poteva ricostituire la società a sua immagine e somiglianza: e l’esperienza politica che era scaturita dalla realizzazione di tale principio aveva invece dimostrato che la società ha una propria ragion d’essere, ha una sua autonomia che si esprime nelle leggi costitutive fondamentali, risultato della sua vita storica. Si trattava di rivendicare l’autonomia della società civile nei confronti dello Stato inteso come volontà sovrana che si pone come unica fonte del diritto, di intendere il vero fondamento della società, il suo fine, il principio che ne determina il movimento. Possiamo intendere l’iniziale interesse di Rosmini per una “Storia dell’umanità”, volta ad individuare principi e leggi mediante cui si costituiscono e si sviluppano le società politiche, quale necessaria premessa di una politica impegnata a garantire l’ordine e la stabilità. La storia deve costituire un costate punto di riferimento per ogni considerazione politica, perché essa ci richiama al realistico confronto con i fatti, che, come è noto, hanno un particolare rilievo nella speculazione rosminiana. È la storia che attesta il nesso sussistente fra le teorie e i fatti che il politico deve tenere costantemente presente. “Insomma, non si deve estrarre la teoria della società dall’uovo non fecondato della semplice idea che sta nella mente; ma è la storia quella che con i suoi svariatissimi accidenti somministra le condizioni e i dati positivi, i quali, cambiati dalla mente in condizioni e dati possibili, possono diventare materiali adatti a costruire la teoria”»[20].

            «L’iniziale giudizio di Rosmini sulla Rivoluzione francese è decisamente critico, come di un avvenimento politico che aveva determinato non solamente l’eversione dell’ordine costituito ma anche sollecitato ed esaltato le passioni individuali e collettive, che avevano mantenuto la Francia e l’Europa per circa un ventennio in uno stato di convulsa agitazione e di guerre continue: “E se i fatti corrispondono a queste grandi esposizioni basta por l’occhio alla francese rivoluzione e a tutti gli altri sconvolgimenti avvenuti dopo di quella. E i fiumi di sangue umano di cui si è veduta macchiare tutta l’Europa e le scissure mortali tra figlio e padre, fratello e fratello, sposa e marito messe per le case e le tirannie nere dei più forti e le barbarie dei sodati senza freno e le proprietà di tutti all’arbitrio dei faziosi pochi ed ogni vincolo più sacro infranto … e colla libertà si formavano i tiranni e colla uguaglianza si depredavano le ricchezze e colla grandezza d’animo si soddisfaceva la viltà delle passioni”[21]. Questo primo giudizio, così negativo sulla Rivoluzione francese, venne sostanzialmente rivisto da Rosmini nel corso della sua speculazione politico-giuridica. A poco a poco cade l’interesse polemico nei confronti della Rivoluzione, che comincia ad essere considerata come un vero e proprio fatto storico, che deve essere giudicato – e non aprioristicamente condannato – per i concreti problemi politici che ha posto e per i problemi filosofici e religiosi a quelli implicitamente connessi. La storia del genere umano, per Rosmini, non può essere scissa dal problema teologico e filosofico della teodicea, della distribuzione dei beni e dei mali temporali, che è la premessa di ogni ordinamento politico. Questa storia infatti, per Rosmini, è “un grande e sacro libro aperto da Dio dinnanzi agli occhi degli uomini e non inscritto dentro, [un libro] ricolmo di quesiti e a risolvere alla umana intelligenza perché vi trovi le giuste soluzioni, in modo tale che nell’indagare e ricercare le risoluzioni e le risposte, essa venga accrescendo di cognizione e di appagamento”: Per questo occorre quindi riconsiderare le premesse culturali e filosofiche della Rivoluzione come necessario punto di riferimento per intendere gli orientamenti fondamentali del mondo moderno. L’opera di trasformazione politica e sociale attuata dalla Rivoluzione non può essere giudicata e respinta sulla base dei momenti più drammatici che la caratterizzarono e della lotta alla Chiesa …[Nelle Cinque piaghe Rosmini riconosce che le grandi riforme sono inscindibili da contrasti e da lotte politiche che molte volte sconvolgono l’intera società: “D’altro lato, quando mai si operò una grande riforma sulla terra, senza grandi scompigli? Quando si distrussero degli abusi universalmente invalsi e inveterati, senza ostacoli e contraddizioni? Un popolo ha egli mai riacquistato la perduta dignità senza sacrifici? Si è mai resa felice una nazione, se non passando per grandi sventure? Sostenendo le prove più dure?”[22].

            La Rivoluzione segnò la fine dell’Antico Regime, di una società organizzata, nell’ordine civile e politico, sul feudalesimo, che per Rosmini fu la vera causa dell’assoggettamento della Chiesa al potere temporale e della negazione della sua libertà, che è essenziale alla sua costituzione ed al suo ministero: da questo punto di vista la Restaurazione, nei limiti in cui considera la società pre-rivoluzionaria una sorta di modello politico, continua in effetti lo spirito del feudalesimo che sussiste nonostante l’abolizione delle norme e degli istituti sui quali si fondava: “Il feudalesimo in parte è caduto, e va via più dileguandosi in presenza dell’incivilimento delle nazioni, come le ombre si fuggono ai raggi della luce: la chiesa non ha più feudi. Ma al feudalesimo sopravvivono i suoi principi legali, le sue abitudini, il suo spirito: la politica dei governi si ispira ad esso, i codici moderni hanno ereditato dal medio evo una sì infausta eredità” [Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1966, p. 320[23].

            «La Rivoluzione francese poneva a Rosmini un problema che gli stava particolarmente a cuore e che costituiva per molti aspetti il presupposto dei suoi orientamenti spirituali e speculativi: quale era stato il ruolo che la Chiesa aveva svolto in occasione del grande avvenimento politico? Era stato in grado di interpretare le profonde esigenze che la Rivoluzione aveva manifestato in modo così radicale? E, soprattutto, aveva saputo preparare la società francese a quella grande opera di riforma? La risposta di Rosmini è negativa: in occasione della Rivoluzione la Chiesa non ha saputo corrispondere alla sua missione storica di ‘incivilimento’ dei popoli, svolta durante il Medioevo e gli inizi dell’età moderna: la sua parola non aveva avuto più una capacità formatrice e orientatrice»[24].

            «Rosmini interpreta la Rivoluzione francese come la manifestazione della lotta secolare fra l’elemento signorile-familiare e quello della società civile che caratterizza l’intera storia della formazione delle nazioni moderne in Europa. La società civile si trovò impedita nell’attuazione dei suoi principi di libertà e di uguaglianza civile dalla struttura aristocratico-feudale dell’Antico regime: tale impedimento assunse il carattere di una vera e propria oppressione, che suscitò la reazione violenta della società, cioè di tutte le classi sociali che si identificavano con essa, che lottarono contro la monarchia e l’aristocrazia per distruggere l’elemento signorile ed affermare l’assoluto primato della società civile: “La lotta fra la famiglia [feudale territoriale] e la società civile divenne minacciosa, torbida, sanguinaria in Francia dopo il 1789. Sia pur vero quello che osservarono alcuni uomini perspicaci, che a quell’epoca il progresso della società civile verso il suo ideale essendo impedito da disposizioni arbitrarie, la società divenne violenta per il bisogno irresistibile di infrangere le sue pastoie e procedere innanzi. Occorre riconoscere, pertanto, che la Rivoluzione, nonostante le lotte, le persecuzioni, le guerre, è stata apportatrice di progresso per la società civile: “Dopo la sanguinosa esperienza, dopo tanta discussione di principi esausta, si può dire, p

per quella età; noi possiamo ora portarne tranquillo giudizio; ed accordiamo senza pericolo, che dentro all’abisso della malignità, s’agitava per sbocciare un germe buono e salutare”. A questo proposito Rosmini osserva che la Rivoluzione imboccò la strada della violenza e dell’oppressione, legittimata e teorizzata da una concezione della società del tutto astratta, per essere venuta meno in quel periodo la funzione di orientamento e di guida della Chiesa, che si era espressa invece nei secoli precedenti: “Bisogna convenire dunque che già da molto tempo la società civile sentiva il bisogno di fare un passo innanzi verso il suo ideale. Non vi è dubbio, che se le persone più rette e più religiose avessero preso a coltivare amorosamente il buono istinto sociale, aiutando la società a dare innanzi quel passo a cui ella aspirava; esse avrebbero meritato immensamente dell’umanità, salvandola dagli orrori rivoluzionari, e accreditata così la virtù, glorificata la religione. Ma le più rette e le più religiose persone sgraziatamente non intesero allora il fervido voto, il bisogno pressante della società in cui vivevano, né la propria vocazione. È questa la più grande sciagura delle nazioni”»[25].

FEDERALISMO E ROSMINI

            Antonio Rosmini, da cattolico convinto qual era, non poteva non vedere stagliarsi con nitidezza all'orizzonte il caos che quegli anni, densi di avvenimenti turbolenti, avrebbero procurato all'Italia e all'Europa tutta. Dopo l'ubriacatura napoleonica e la successiva fase di restaurazione, negli Stati italiani pre-unitari, si incominciava a discutere seriamente di unificazione: non era certo la gente a discettare di tali questioni, bensì le élites dell'intellettualismo illuminista, fortemente imbevute di proclami giacobini e massonici. Proprio sulla reazione al periodo d'invasione francese e sul tema dell'unità statuale italiana si evidenziava compatto – tra il 1815 e il 1848 – un fronte "neo-guelfo", che faceva riferimento dalla Chiesa cattolica: tale raggruppamento vedeva i cattolici difendere le ragioni dello Stato della Chiesa e la persistenza degli Stati pre-unitari, magari confederati sotto la sapiente guida del Papa.

Con il 1848 tutti i sogni guelfi dei cattolici italiani vennero infranti e anche all'interno della Chiesa incominciarono ad evidenziarsi strategie politico-culturali di differente sensibilità in merito al sentimento risorgimentale. Se da un lato rimaneva salda e inflessibile la posizione anti-risorgimentale dei Papi, che si succedettero sul soglio di Pietro negli anni ruggenti dell'Ottocento, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX, sull'altra sponda vi erano alcuni isolati pensatori cattolico-liberali come Vincenzo Gioberti e Massimo d'Azeglio che propugnavano un compromesso al ribasso tra cattolicesimo e ideali risorgimentali.

Molto lavoro sotterraneo per distrarre i cattolici dal papismo romano fu oggetto dell'abile trama massonica sostenuta dagli ambienti più anti-clericali del "risorgimento italiano": l'unità italiana – peraltro invocata da molte delle potenze europee maggiormente anti-cattoliche – fu un pretesto per attaccare il potere temporale della Chiesa cattolica e per invadere lo Stato più antico dell'Occidente, ossia lo Stato della Chiesa.

L'articolo 1 dello "Statuto albertino" citava letteralmente: "La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi". Nonostante quest'apertura retorica e pseudo-confessionale, lo Stato italiano voluto dalla massoneria e dai Savoia risultò adottare una malcelata politica laicista e giurisdizionalista. Fu appena prima del periodo unitario che si evidenziò, tra le fila cattoliche, la lungimiranza e la serietà del pensiero federalista di Antonio Rosmini che propose un tipo di federalismo funzionale al mantenimento dell'indipendenza della Chiesa cattolica.

Il progetto prevedeva un inizio di federazione italiana che abbracciasse insieme i regni di Roma, Firenze e Torino sotto forma di "Lega Politica". Questa Lega doveva essere "come il nucleo cooperatore della nazionalità italiana", un inizio aperto agli altri Stati che volessero in futuro entrare a farne parte. La Lega doveva concepirsi come una confederazione perpetua di questi primi tre Stati, sotto la presidenza onoraria perpetua del Papa. La Confederazione doveva anzitutto elaborare una "Costituzione federale" da prepararsi mediante un'Assemblea costituente. Una volta costituitasi sarà governata da una Dieta permanente, che risiederà a Roma. I membri della Dieta vengono eletti per un terzo dai Principi, per gli altri due terzi dalle due camere dei rappresentanti del popolo. Compiti specifici della Dieta sono gli affari comuni a tutti gli Stati: dichiarare guerra e pace, regolare le dogane e ripartire spese e entrate, stipulare contratti commerciali con Stati estranei alla Confederazione, uniformare il sistema di monete, pesi, misure, esercito, commercio, poste, procedura civile e penale. Il compito di vigilare sul rispetto dell'uguaglianza politica tra gli Stati interni e fra Stato e singoli cittadini veniva demandato a dei tribunali speciali che Rosmini chiamava "tribunali politici" o tribunali di giustizia.

I tre Stati iniziali avrebbero favorito già dal nascere il futuro ingresso nella confederazione del Regno di Napoli, di alcuni Stati minori e dei territori che si sperava venissero a liberarsi dalla dominazione austriaca. In particolare, il Lombardo -Veneto si sperava venisse a fondersi col Regno di Sardegna, formando un solo Stato; mentre Parma e Modena sarebbero confluite in uno degli altri Stati. Per cui la futura Confederazione italiana sarebbe stata formata da questi Stati: Sardegna (che comprendeva la Sardegna vera e propria, il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto, magari un domani il Trentino: tutti uniti come Alta Italia), Toscana, Stato pontificio, Regno di Napoli o delle due Sicilie. Quattro Stati in tutto; oggi diremmo quattro macro-regioni. Rosmini , scrisse uno dei più bei pensieri federalisti che ci siano giunti dall'Ottocento: "L'unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l'Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra essere la formula della organizzazione italiana".

PRINCIPI FEDERALISTI ROSMINIANI

            «Se però la libertà, vista come potenzialità, è immensa, diventa modesta considerata come realizzazione concreta. Infatti l’uomo, nonostante tutta la sua buona volontà, rimane un essere limitato: potrà accumulare una quantità più o meno grande di beni, ma non “tutti” i beni, e la sua porzione sarà diversa da tutte le altre. Sta in questa limitazione, oltre che nel maggiore o minore uso della libertà individuale, la ragione profonda delle diversità e delle disuguaglianze tra gli uomini. Ciascuno raggiungerà di fatto un punto più o meno alto delle sue potenzialità, ed il frammento che esprimerà avrà tonalità, settori, spazi differenti da quelli degli altri. È dalla constatazione delle diversità concrete tra gli uomini e le comunità, che sorgono le istanze sane del federalismo. Se infatti le differenze sono un distillato necessario della libertà fattiva, bisognerà tenerne conto, perché una legge politica non può ignorare la realtà sociale sulla quale dovrà essere applicata. Ora, se le diversità dovessero risultare così marcate da presentare solo labili tracce di unità, evidentemente il federalismo costituirebbe la via di mezzo tra unione e separazione. Ma se fra le diverse comunità vi fossero forti e diffuse radici comuni, diventerebbe errato non utilizzarle per costruire una nazione unica, perché, quando esistono condizioni propizie, l’unione non solo rende tutti più forti, ma moltiplica anche per tutti le possibilità di beni, quindi di diritti. In tale contesto il federalismo rosminiano va letto come la soluzione più realistica del solo momento storico in cui egli lo proponeva; un primo efficace passo verso l’unità, che col tempo si sarebbe rafforzata grazie ai valori ed ai beni che gli italiani sarebbero stati in grado di far emergere dalle loro robuste radici comuni. Però, e sta qui il recupero rosminiano del nucleo federalista, il processo unitario italiano non doveva essere spinto al punto da recidere scoraggiare anche quelle diversità che avrebbero potuto dare una identità propria alla nostra nazione. Rosmini mette in guardia dallo spirito delle costituzioni francesi, tendenti non solo ad assorbire nell’onnipotenza statale ogni altra società, ma anche a fare della capitale dello Stato l’unico centro di potere. È invece auspicabile che il politico riconosca, e lasci respirare, le diversità e disuguaglianze “naturali” che si sono venute a creare lungo il processo storico, sforzandosi di convogliarle verso una unità polifonica»[26].

LIBERTÀ CIVILE

            «Ora noi abbiamo dichiarato fino dal principio che per libertà non intendiamo altro che “il libero esercizio dei diritti di tutti”, e che ogni altra libertà erroneamente si chiama con questo nome, e affinché non nascano equivoci, deve chiamarsi licenza. Se dunque il Governo civile vuole essere un Governo liberale, e si crede obbligato di governare secondo il principio della libertà, è manifestamente necessario che egli consideri i diritti di tutti i governati come anteriori ai suoi propri, e che la sua azione non usurpi su di quelli cosa alcuna, ma li seguiti»[27].

LIBERTÀ E PERSONA

            «Come è noto, Rosmini fa ruotare tutta la sua concezione sociale e politica sul concetto di “persona”. La persona non “ha”, ma “è” diritto, anzi essa è “il” diritto. Se poi si va a vedere che cosa nella persona costituisce “il diritto sussistente”, ci si accorge che è la sua libertà: essendo ogni uomo dalla nascita portatore di una valore che ha le qualità del divino (da non scambiare con Dio), incombe su tutti il dovere di “riconoscere” questo valore e di non violarlo; e la inviolabilità da parte degli altri di ciò che è nostro, comporta la responsabilità di gestire in prima persona il valore immenso in noi, quindi di vivere in libertà. La libertà è inalienabile, quindi non delegabile a nessuno, ed è “responsabilità” in un duplice senso: perché lascia a ciascun individuo il peso di corrispondere al valore che si porta dentro; e perché chiede di essere sviluppata attraverso le varie scelte pratiche che si operano nella vita»[28].

UNITÀ E COSTITUZIONE

            «Tra i pensatori cattolici che nell’Ottocento guardarono all’Italia come ad una realtà sociale avente il diritto di assurgere a nazione, e si sforzarono di tracciare le vie maestre sulle quali orientarla, vi è Rosmini, privilegiato punto di riferimento in questi incontri […]. Egli non fu colto alla sprovvista dall’esplosione del 1848. al contrario, aveva maturato da circa due decenni un suo pensiero politico in opere quali la Filosofia del diritto e la Filosofia della politica; mentre nella Teodicea aveva meditato sulle leggi della distribuzione del bene e del male tra gli individui e tra le società»[29].

            «In questo drammatico ’48, il compito che si pone agli Italiani non è unico, ma duplice: è la “grande opera doppia”: da un lato, realizzare l’indipendenza e l’unità della nazione, dall’altro, dare a questa nazione una conveniente costituzione. “Dopo lunghi secoli di espiazione l’Italia è ribenedetta dalla Provvidenza: chiamata da quel Dio che non l’ha mai dimenticata nei suoi giusti rigori, ella si è svegliata, e con una mano già discaccia l’antico oppressore, coll’altra sta per iscrivere la legge, sotto la quale ella viva ordinata e pacifica della vita delle nazioni […] Doppia è la grand’opera nella quale al presente l’Italia si affatica; e se l’espulsione dello straniero dal sacro suo suolo esercita il valore dei suoi campioni, il pensiero profondo dei suoi statisti già si agita per rinvenirle quella Costituzione politica che le assicuri perenne il frutto della vittoria e della pace”[30]. Entrambi i poli di questa “grande opera doppia” sono necessari per il Rosmini, ma tra i due la priorità spetta indubbiamente ad un retto ordinamento costituzionale, giacché senza di esso non solo sarebbe impossibile l’unità d’Italia, ma l’unità di qualsiasi Stato. Privo di costituzione o retto da una costituzione ingiusta, nessuno Stato potrebbe durare e finirebbe presto per sfaldarsi. Non è un caso che La Costituzione secondo la giustizia sociale si apra con un’accurata ricostruzione della scarsa durata delle costituzioni francesi dall’89 al ’48, a testimonianza del fatto che le costituzioni ingiuste sono incapaci di offrire stabilità e ordine alla società civile. Non è dunque solo in nome della giustizia che si invoca la costituzione, ma anche in nome della stabilità e solidità dello Stato. E tale opera risulta preliminare rispetto ad ogni altra azione politica, anche a quella più nobile della liberazione dallo straniero: “Il preliminare dunque indispensabile – si legge nelle pagine Sull’unità d’Italia – per venir poi a costituire l’unità d’Italia si è che tutti gli Stati si accordino in adottare uno Statuto costituzionale buono in tutte le sue parti, il quale prometta di durare, di dare consistenza alla società”[31].

            Questa priorità dell’ordinamento costituzionale rispetto all’azione politica ritorna anche nelle trattative ricostruite nella Missione a Roma: di fronte alle richieste del Piemonte che premeva per un’alleanza militare rimandato al futuro l’assetto del paese, il Rosmini ripeteva in modo quasi ossessivo che ogni azione politica sarebbe stata possibile solo dopo che si fosse stabilita una solida confederazione. Al ministero Casati, che il 3 agosto 1948 chiedeva al Rosmini di assumere l’incarico di una missione a Roma al fine di “muovere il Papa a prender parte alla guerra contro l’Austria”, il Rosmini rispondeva proponendo una missione pacifica che avesse lo scopo di stabilire un concordato con la S. Sede e “di negoziare una Confederazione fra i diversi Stati d’Italia, di cui si garantisse l’esistenza, sotto la presidenza, almeno onorifica, del Pontefice”[32]. Il governo piemontese, non senza ambiguità, accettava la proposta, ma nel settembre del 1848, quando già il Rosmini aveva elaborato il suo progetto di Confederazione, tornava a premere per un immediato aiuto militare. Di nuovo il Rosmini ribadiva che era “necessario cominciare dal fondare una Confederazione fra i diversi Stati italiani con una Dieta permanente nella quale tutti fossero rappresentati, e alla quale fosse rimesso intieramente il giudizio tanto sulla giustizia, quanto sulla prudenza della guerra e sul modo di condurla, e finalmente sulla sistemazione d’Italia dopo finita la guerra: il che darebbe a tutti gli Stati una guarentigia della loro esistenza, e dell’equa e fraterna distribuzione tra essi sì dei pesi che degli utili dell’impresa[33]. Ma di nuovo, il 4 ottobre 1848, il Piemonte premeva per una immediata Lega politico-militare sostenendo che la realizzazione della Confederazione avrebbe richiesto troppo tempo e che in ogni caso la Lega era la premessa necessaria per l’attuazione dei quella. Di fronte a questa immodificabile impostazione del problema da parte piemontese, Rosmini chiedeva l’11 ottobre la dispensa dall’incarico»[34].

NB - È ben notare come «l’atteggiamento di Rosmini nei riguardi dell’erigendo Stato nazionale fosse determinato dalla convinzione che toccasse all’Italia portare a compimento il millenario processo che attraversando e accompagnando la storia della civiltà cristiana, aveva dato forma e sostanza politica alla “società civile”. Tale processo aveva avuto per Rosmini uno dei suoi punti di snodo, ma anche di contraddizione, nella Rivoluzione francese e nei sistemi costituzionali che ne erano derivati, i quali portavano i segni della teoria “utilitaria e sensistica” che li aveva generati, e covavano nel loro seno nuovi germi di “enorme assolutismo e dispotismo”. Nella visione rosminiana il ’48 italiano doveva essere, sul piano storico e ideale, la replica alla Rivoluzione francese, ma anche, in un certo senso, il suo inveramento: l’avvio di una nuova era, improntata, a differenza di quella uscita dalla Rivoluzione, da forme politiche pervase di valori cristiani o, per meglio dire, dettate da un ordine razionale non in conflitto, ma omogeneo al deposito veritativo ed etico del cristianesimo, quale Rosmini riteneva di aver riflesso nella sua filosofia»[35].

RELIGIONE DI STATO

            «Le Costituzioni adottate fin qui in Italia dichiarano Religione dello Stato, la Cattolica. Ma questa frase “Religione dello Stato” non esprime un concetto preciso: il gruppo dei diritti politici che fu attribuito con essa ai cittadini cattolici andò variando secondo i tempi. La libertà della coscienza deve essere inviolabile: non di deve dunque far violenza alla coscienza d’un impiegato ebreo, il quale, se è vero ebro, deve sentire un’assoluta ripugnanza ad associarsi agli atti del culto cattolico. Medesimamente non si deve far violenza alla coscienza dei cattolici, i quali non possono senza peccato ammettere agli atti del loro culto gli acattolici. Non si dà libertà di coscienza, se non si permette a tutti di esercitare le leggi della propria religione in tutta la loro estensione. L’obbligarli ad infrangerle con la forza, con le leggi, con atti del governo è intolleranza, è persecuzione, è dispotismo. La religione cattolica non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà: ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro. Il più grande degli assurdi si è che in un popolo libero sia schiava la religione ch’egli professa. Questo assurdo si riscontra in tutte le Costituzioni di tipo francese per l’influenza che esercita l’incredulità nella loro formazione. Nello stesso tempo che si proclamò la libertà di tutti culti, con una perfida incoerenza si lasciò sussistere e si andò formando sempre più accanto alla legge fondamentale, un diritto pubblico che impediva alla Chiesa Cattolica ogni libera sua azione. L’Italia, la religiosa Italia, chiamata ora da Dio alla libertà, ha la missione altresì di divenire liberatrice del cattolicesimo dalla infame servitù, nella quale gemette oppresso finora»[36].

MISSIONE A ROMA[37]

            Suddito di Sua Maestà Imperiale d’Austria, Rosmini si considerava italiano e con tutte le sue forze intellettuali e spirituali mirava alla ricerca dell’unità italiana. Non conobbe bene e a fondo il Sud dell’Italia, ma si convinse che un’unica sorte legava le varie regioni d’Italia. Rosmini si formò ben presto una visione generale dell’unità profonda degli italiani per lingua, cultura e religione. Secondo il Roveretano i popoli, nelle loro classi dirigenti più illuminate potevano fare molto: non altrettanto gli apparati, le burocrazie, i grovigli di interessi corporativi e conservatori. Occorreva promuovere un movimento di unificazione che coinvolgesse insieme i popoli, con le loro genuine aspirazioni, ed i governi, nella parte migliore e più sensibile di essi. Ma senza l’elemento etico-religioso nulla era possibile impostare. Il sacerdote trentino di madre lingua italiana aveva scelto di perseguire nella sua attività intellettuale e nel suo stesso apostolato la causa della libertà politica d’Italia, riflettendo sulle vie per porre in accordo la religione cattolica professata nella penisola con l’aspirazione a una identità nazionale. Egli compì, di conseguenza, negli anni della “rivoluzione nazionale”, un’acuta analisi sulle possibilità di conciliare la passione civile, e la rivendicazione dell’indipendenza, con il sentimento religioso degli italiani e con i diritti della Chiesa universale. Di tutto questo il diario della missione a Roma è una testimonianza preziosa.

            Rosmini scrisse il Commentario della sua missione poco dopo il rientro a Stresa. La data d’inizio del lavoro che porta la copertina di carta che racchiude il prezioso manoscritto è il 27 febbraio 1850: egli era arrivato a Stresa il 2 novembre 1849. Complessivamente era stato a Roma, Napoli, Gaeta, Albano, e dintorni, senza mai rientrare a Stresa per un anno e tre mesi. La data di compimento del commentario è il 23 aprile 1850: dunque nel breve spazio di due mesi egli scrisse tutta la storia di quanto era accaduto a seguito della sua andata a Roma, e riportò con fedeltà gli eventi di cui era stato protagonista, dalle trattative sulla confederazione italiana fino alle mosse politiche in vista della restaurazione del papato in Roma. Fu un lavoro non da poco. Egli per lo più lo scrisse personalmente: sono infatti poche le pagine in cui si riscontra la mano del segretario Toscani o di altri suoi collaboratori cui egli potesse dettare in Stresa. Era sua intenzione chiarire la parte da lui avuta nelle vicende cruciali del Quarantotto, e difendere la sua perfetta buona fede nei confronti del papa. Inoltre era suo intento mostrare che non aveva mai cessato di restare ancorato ai voleri di Pio IX. Se la condanna delle Cinque piaghe era venuta, ciò non era stato perché egli avesse insistito nel presentare talune tesi in esse contenute per scopi di sovversione o di critica, ma perché non si era voluto prendere atto delle sue precisazioni e della sua limpida azione in favore del papato.

            La raccolta del Commentario invece venne accantonata appena fu chiaro che era del tutto inopportuno pubblicare un’opera in cui, larvatamente o chiaramente, si esprimevano giudizi sul comportamento di molti personaggi, protagonisti delle vicende. In particolare parve chiaro a Rosmini che non era possibile divulgare taluni episodi di cui era stato protagonista o spettatore, e che non era opportuno far risaltare certe responsabilità e certi atteggiamenti non decisamente commendevoli. Per difendere il proprio operato egli non aveva altra scelta che quella di porre in luce non favorevole taluni comportamenti altrui. Un simile procedere non era possibile, nel momento in cui si addensavano le nubi di un nuovo massiccio attacco contro l’ortodossia delle sue dottrine. Il complesso della vicenda del biennio 1848-49 era ancora avvolto in parecchie reticenze, e non sembrava il momento di porsi nuovamente in urto con la curia romana e magari con lo stesso pontefice, oltre che con il governo piemontese che, se pure non era il medesimo di quello che lo aveva inviato a Roma (Ministero Casati) e di quello che lo aveva tenuto praticamente inoperoso (Ministero Alfieri-Perrone), pur tuttavia avrebbe potuto risentirsi per il tono con cui erano trattati uomini politici del Regno di Sardegna, ancora in attività, o la cui memoria era viva. Di qui la decisione di lasciare inoperoso il voluminoso dossier, in attesa di tempi migliori. Essi non vennero e Rosmini morì senza aver potuto porre mano alla pubblicazione.

            Se nella primavera del 1848 Rosmini aveva gioito per le gesta del popolo milanese, nell’autunno dello stesso anno soffrirà per le violente manifestazioni anti-papali seguite all’assassinio del primo ministro Pellegrino Rossi. Come mai i lombardi sono esaltati, mentre i romani sono vituperati e le loro agitazioni sono ritenute frutto della demagogia di pochi? La verità è che Rosmini, fin dall’aprile 1848, aveva considerato indispensabile che il Lombardo Veneto si affrancasse dalla dominazione austriaca costituendo con il regno di Sardegna il nuovo regno dell’Alta Italia. Ma ora, ai primi di agosto, l’esito della guerra rigetta ogni aspirazione nel caotico e nel casuale. Rosmini capisce che quasi tutto è perduto, ma che forse l’intervento papale può contribuire a dare una svolta radicale al processo della unificazione italiana. Per questo si oppone, sul finire del luglio 1848, sia alle insurrezioni che alla stessa guerra. Con questi sentimenti egli reagisce alla “chiamata” che gli rivolge il governo piemontese: occorre portare un decisivo contributo ad una soluzione pacifica, basata sulla “forza politica” dell’unione “federale” attorno alla “forza morale” del papato. Quando Rosmini viene con urgenza chiamato a Torino, coloro i quali avevano pensato a lui sono convinti che egli perorerà davanti al Pontefice, con moderazione e con consapevolezza, il progetto di una lega politica italiana. Gabrio Casati, Vincenzo Gioberti e altri pensano a Rosmini come alla persona più adatta a “sbloccare” la situazione dei rapporti tra Piemonte e Roma. Pensano che egli chiederà con calore al papa di tornare ad occuparsi della sorte del paese. Rosmini invece ritiene che il suo compito esuli ormai dalla contingenza delle trattative per una lega. La politica del Piemonte, infatti, non è , a suo avviso, più adeguata. Egli, nel momento in cui scende a Torino dal Cantone dei Grigioni, la considera fallita in quanto puramente poggiata sull’iniziativa bellica; ma del resto considera fallito ance il moto spontaneo del popolo. La strada da battere per lui è quella di un forte richiamo ai governi ed ai popoli per una forma nuova di coesione. Ma non vede nulla di questo nel Piemonte. Il suo governo è ambiguo a riguardo del problema di una coesione federale tra gli Stati italiani in funzione antiaustriaca. Ma il ministro Casati vede la lega degli Stati italiani in funzione del consolidamento di una certa linea politica: una volta ottenuto questo, si sarebbe potuto negoziare con l’Austria da posizioni di forza. Queste tendenze puramente annessionistiche Rosmini le consce bene: di qui i suoi ripetuti inviti al governo di esprimere per lui un preciso mandato. Il Regno dell’Alta Italia era disposto, se si fosse costituito, ad accordarsi con gli altri regni per una grande Confederazione? Le prime battute del diario rosminiano della missione romana mettono subito in chiaro che la politica piemontese è ambigua. Rosmini si attende molto di più dal papato, se la questione politica viene svincolata dalla contingenza della guerra. Egli pensa che solo la figura morale del papa, se saprà imporsi, avrà la capacità di coagulare le forze italiane. Rosmini vuole un mandato per trattare con il papa la questione della pace religiosa e quella di una nuova forma di coesione tra gli Stati italiani. Invece il conte Casati affida a Rosmini le residue speranze dei sostenitori di una guerra che, senza interventi massicci di eserciti nuovi, è perduta.

            Pio IX aveva tenuto nei mesi successivi alla Allocuzione del 29 aprile 1848 un atteggiamento incerto, appoggiando blandamente le aspirazioni nazionali, ed esercitando parecchie pressioni sull’Austria per una soluzione negoziata della guerra. Il 3 maggio 1848, il papa invia una lettera all’imperatore Ferdinando, dove, rivolgendosi agli austriaci, il papa scrive «Noi confidiamo che la Nazione stessa, onestamente altera della nazionalità propria, non metterà l’onore suo in sanguinosi tentativi contro la Nazione Italiana: ma lo metterà piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella, come entrambe sono figliuole Nostre e al cuor Nostro carissime; riducendosi ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la Benedizione del Signore». Il governo costituzionale di Roma, guidato da un altro filosofo, Terenzio Mamiani della Rovere, insisteva perché il papa prendesse una posizione critica nei confronti dell’Austria, anche in questa fase favorevole per le sorti delle armi imperiali.

            Rosmini è mosso dal desiderio di tentare con gli argomenti religiosi e morali, ricorrendo a quella Chiesa che nelle sue proposte avrebbe dovuto ritrovare la libertà e la semplicità dei tempi antichi, la via della risoluzione federale, per dare uno sbocco positivo alla gravissima crisi del movimento nazionale.

ROSMINI E ROMA

            «Tutti sapevano che Rosmini aveva compiuto nel 1848 una missione a Roma, e tutti sapevano l’esito che aveva avuto. Però a pochi è venuta la curiosità di andare fino in fondo. Avrebbero scoperto che questa era la chiave per capire l’apporto rosminiano alla nostra storia ed alla storia dell’umanità tutta».

            «Spesso si sentono pronunciare anche giudizi che limitano il valore dell’evento risorgimentale, e negano una sua importanza per la costituzione della nostra unità di popolo e di nazione. In questo contesto credo che non sia andare controcorrente se si cerca di ricostruire gli avvenimenti che toccano Rosmini; basta farlo con una nuova mentalità che è quella di non dare per presupposto che il Risorgimento nazionale sia stato un bene in assoluto per il nostro paese, ma di far toccare con mano, nei fatti, la sua primarietà»[38].

            «Il Commentario sulla missione a Roma lascia trasparire che non vi sono stati nel fallimento dell’iniziativa rosminiana errori di valutazione della bontà del progetto e della sua opportunità. Diversamente dal Gioberti, poi, Rosmini non ritiene che il voltafaccia del papato nel 1848, dopo aver tenuto atteggiamenti ambigui, significhi la necessità di ricorrere a soluzioni in cui il papato abbia a sparire come realtà mondana. Non è dato comprendere, dopo che noi leggiamo le parole profetiche di Rosmini in cui egli ammonisce il papa ed i cardinali a non alienarsi le simpatie degli italiani combattendo la prospettiva dell’indipendenza e dell’unità, a quale soluzione egli avrebbe voluto appellarsi. Certamente non alla soluzione di un separatismo assoluto della Chiesa dallo Stato, se consideriamo la usa strenua difesa dei diritti della Chiesa in occasione delle Leggi Siccardi. E neppure alla soluzione della scomparsa del potere temporale dei papi. Probabilmente Rosmini avrebbe guardato ad un approfondimento ed ampliamento del ruolo spirituale del papato entro una sua protezione da parte dello Stato federale italiano, affidato però alla gestione ed alla residenza dei principi secolari e non più al capo dello stato teocratico».[39]

            «Occorre avere il coraggio di situare Rosmini nelle vicende, spesso complesse e per nulla scontate, del biennio 1848-49. In tal modo si deve tenere presente che il nostro filosofo mostrò un realismo ed una serie di capacità dialettiche e mediatrici che nessuno avrebbe immaginato dalle sue precedenti attività. Evidentemente molti ignoravano che Rosmini in un certo senso si era “fatto le ossa” come Preposito generale del suo piccolo istituto religioso, e che “aveva accumulato” quindi molta esperienza anche nel trattare le persone e le istituzioni (specialmente romane). […] Il Rosmini Presidente del Consiglio dei Ministri dello Stato romano, assurto a quella carica non in virtù di una dialettica parlamentare o, peggio, di maneggi o colpi di mano di bassa politica, ma per una scelta di “salvezza”, sarebbe stato certamente una figura in grado di assumente su di sé un grande prestigio. Ma sarebbe riuscito a gestire la gravissima realtà seguita all’assassinio di Pellegrino Rossi? Pochi storici del nostro risorgimento hanno posto attenzione al fatto che gli eventi di Roma che provocarono la fuga del papa a Gaeta erano stati di una tal gravità da rendere praticamente impossibile una trattativa tra i mandanti di quel delitto ed il capo dello Stato spirituale. L’uccisione di Rossi era un fatto inaudito, per le circostanze in cui era avvenuta e per l’assoluta mancanza di autocritica e pentimento da parte dei romani dopo il fatto. L’opinione pubblica europea, che già era formata ed era matura, stigmatizzò un simile episodio, frutto di una mentalità di violenza politica che veniva assolutamente respinta; al contrario nell’accoglienza della nostra opinione pubblica nazionale l’assassinio venne quasi posto in secondo piano rispetto agli eventi successivi, ivi compreso l’allontanarsi del papa da Roma. Rosmini era di fronte ad un vicolo cieco: nonostante le approvazioni che certamente il suo operato avrebbe riscosso, ove fosse riuscito a far effettivamente funzionare la macchina statale romana dissestata ed in preda alla demagogia ed all’anarchia, egli riteneva che avrebbe pesato come una macchia sulla sua coscienza di aver dovuto andare in qualche modo a patti con i vari [Pietro] Sterbini[40], [Bartolomeo] Galletti e Bonaparte (Carlo, principe di Canino), probabilmente mandanti morali dell’assassinio dello statista di Carrara. Gli scrupoli, in questo caso mi sembrano veramente motivati, tali quindi da togliere alla scelta rosminiana il sospetto di viltà o di calcolo utilitaristico di scansare mali e fastidi. Di fronte all’inerzia con cui in Italia si guardò a questo assassinio politico si erge l’alta coscienza del nostro filosofo, che non volle venire a patti anche solo indirettamente con chi aveva ispirato un simile atto. La sua lungimiranza politica fu, anche in questo frangente drammatico, notevole. A volte la rinunzia paga di più di un impegno forzato e periglioso»[41].

            «Rosmini propose un progetto di unificazione nazionale che avrebbe potuto avere successo in quanto era l’unico progetto in grado di dare a tutti gli Stati italiani le maggiori garanzie di pariteticità. […] Il fallimento del progetto fu dovuto all’atteggiamento del Piemonte, del tutto sordo all’idea di una Confederazione così come era stata presentata, in quanto non favoriva alcuna immediata trattativa per un’alleanza politico militare. Il Ministro degli Esteri dello Stato sardo, il conte Ettore Perrone di S. Martino, che pure era contrario ad una ripresa della guerra contro l’Austria, indicava come prima mossa diplomatica a Rosmini la stipulazione di un’alleanza militare con lo Stato romano, al fine di stipulare una strategia di potenza, da far balenare come deterrente all’Impero austriaco. In questo contesto ogni altro tipo di trattativa appariva allo statista piemontese come superfluo. In ciò sottovalutava la considerazione che abbracciasse più della metà dei popoli d’Italia, ed era senz’altro più efficace, anche psicologicamente, il far percepire all’Austria la presenza di un comune sentimento di unità, per cui si sentisse malvista nella sua ostinazione a voler mantenere presidi e possedimenti in terra italiana. Possiamo allora interpretare la storia della nostra Italia alla luce di un progetto fallito, ma che presentava tutti gli elementi per riuscire»[42].

            «Nel giudizio politico su Mazzini la valutazione di certe imperdonabili leggerezze non può mancare. Se, nonostante tutto, ancor oggi si continua a considerare Mazzini padre della patria, non vedo perché le ingenuità o gli errori che evidentemente Rosmini compì debbano essere considerati tali da negargli l’attribuzione di questa qualifica. È vero che l’unico motivo per negare l’appellativo di padre della patria a Rosmini potrebbe essere il brevissimo periodo da lui “dedicato” all’azione politica in favore della prospettiva dell’unità e dell’indipendenza, di fronte invece ad una vita intera dedicata da Mazzini, attraverso cospirazioni, scritti, attività educativa ed interventi politici precisi, a costituire le premesse perché l’Italia fosse unita. Ma se contiamo l’attività di educatore svolta dal nostro filosofo nel corso di molti anni, ed il suo impegno di suscitatore di rette coscienze culturali e spirituali di italiani, dobbiamo concludere che anche Rosmini merita pienamente, nonostante sia stato sempre e fino alle midolla delle ossa un filosofo, l’appellativo di costruttore della nostra identità nazionale e culturale»[43].

            «Per quei pochi anni in cui Rosmini si occupò attivamente e con l’assunzione di responsabilità delle problematiche legate alla nostra unità egli agì con ponderazione e meritò certamente la gratitudine di tutti gli italiani. Inoltre preparò un progetto che avrebbe avviato il nostro paese ad una graduale unificazione delle sue diverse componenti regionali, senza la perdita delle peculiarità locali, mettendole anzi le une a confronto con le altre nel contesto di un accordo politico paritario»[44]. «L’unificazione come iniziativa di una minoranza del popolo italiano, avvenuta soprattutto nel dispregio della peculiarità delle diverse regioni, e con soluzioni amministrative accentratrici del tutto improvvide, provocò, dopo l’arresto del processo di egemonia della classe borghese moderata, protagonista nel bene e nel male di questo sforzo di unificazione, un lento contro-processo di disgregazione, cui oggi si crede da parecchi sia difficilissimo porre rimedio»[45].

            «Parecchi cattolici videro nel progetto di unificazione, da qualunque parte esso venisse, un grave pericolo per il potere temporale e per la religione stessa. Inoltre, parecchi cattolici videro nelle iniziative della borghesia, magari appoggiate dalla parte più avvertita dei cattolici, appunto i cosiddetti “cattolici liberali”, il pericolo di una dissoluzione della condizione di tranquillità dei loro interessi, legati ai sovrani assoluti od all’Austria. Non c’è dubbio che lo stesso progetto rosminiano, toccando, se pure con cautela, la sovranità dei diversi Stati, metteva in crisi parte della popolazione, che poteva sentire come una minaccia la perdita di una sua posizione di privilegio. Il possibile e probabile passo in avanti degli stati italiani, verso l’unificazione dei loro sforzi per contare di più ma senza modifiche del loro equilibrio, non fu colto. Si colse, con una netta preoccupazione solo “localistica”, lo svantaggio particolare, e non si comprese che la prospettiva federalistica avrebbe posto un argine invece allo scollamento pericoloso degli Stati italiani tra loro, i quali rischiavano non solo l’asservimento alle politiche straniere, ma anche un estraneamento poco funzionale alla loro coesistenza. Rosmini sentì fortemente il carattere di coesione sostanziale che sarebbe promanato dall’unificazione per via di accordi federali e per via di un conferimento delle funzioni comuni ad una Dieta nazionale, strumento di compensazione e di accordo. Difese questa preziosa caratteristica del suo progetto, soprattutto contro Pellegrino Rossi. Ma fu del tutto impotente di fronte al governo che lo aveva mandato a Roma, in quanto non riuscì a dialogare con esso, e di fronte all’ambiente curiale romano, dal quale non ebbe che amarezze e, alla fine, un trattamento del tutto offensivo»[46].

            «Il fallimento del progetto politico [elaborato da Rosmini] fu in un certo senso propiziato anche dalle ostilità tutte interne alla Chiesa. Il federalismo non andava al Piemonte, non andava, in quel modo, ai democratici ed ai mazziniani, ma non andava anche a buona parte della curia romana»[47].

            «Il 31 luglio 1848 Antonio Rosmini, mentre si trova nel Cantone dei Grigioni, accetta l’incarico di una missione a Roma per conto del governo sabaudo. Il 2 agosto è a Torino a ricevere il mandato ufficiale. A spingere il governo piemontese a chiedere l’intervento di Rosmini troviamo un altro abate, Vincenzo Gioberti, già notissimo per le sue posizioni inneggianti a soluzioni neoguelfe per la causa italiana. Due preti già in polemica tra loro, eppure uniti in questo tentativo di soluzione politica del dramma del ’48.

            Dopo l’assassinio del conte Pellegrino Rossi (15 novembre 1848), a guidare di fatto la politica pontificia troviamo il cardinale Antonelli. Cardinale, senza mai avere preso l’abito talare, pur essendo stato insignito del titolo di “principe della Chiesa”. Ecco il paradosso di questa stagione risorgimentale: preti con incarichi politici, Gioberti e Rosmini, per conto di un governo laico, ed un cardinale laico, l’Antonelli, a capo del governo pontificio. Magari non direttamente per il ruolo del Papa, ma con tutta quell’abilità e capacità tattica che lo impone come ispiratore e guida della politica dello Stato pontificio»[48].

            «Ebbene, la persuasione ed il proposito del Gentile come filosofo e come riformatore religioso e politico sono nati dall’idea che il Risorgimento italiano si sia configurato come “una vera e propria categoria filosofica” specificamente in quella terza posizione: quella del riformismo filosofico cattolico»[49].

            «Sentite, per esempio, questa osservazione del Rosmini, fatta come en passant, nel Nuovo Saggio: “L’esperienza nostra sopra qualsiasi cosa, quantunque ripetuta [molte] volte, è sempre piccolissima, anzi infinitamente piccola, verso i casi possibili: ella è come nulla, in relazione con un’idea universale e necessaria, che abbraccia tutto il possibile” [Nuovo Saggio sull’Origine delle Idee, I, n. 306 in nota] E il Manzoni dirà più icasticamente: “l’esperienza non conduce al sempre”, “l’esperienza non dà universalità, perché questa comprende il futuro” [Opere edite e rare di Alessandro Manzoni, a cura di R. Borghi, 5 voll., Milano 1883-98, II, p. 66[50].

            «È degno di osservarsi, che l’elemento morale è d’indole sua umile, mite, segreto; e rifugge dal pensiero dell’uomo effuso negli strepiti e nelle voluttà esteriori della materia; gli occhi spirituali di costui non trovano il morale elemento, perché sono volti al di fuori; e quell’elemento, o seme divino è tutto di dentro nel più intimo della vita, ove tacito egli posa quasi in arce sicura. Quindi nel memorabile secolo XVII si videro gli uomini brancolando cercare la morale, e non trovarla[51]: non era loro rimasto visibile, di tutto ciò che compone la natura umana, se non la sensazione, che è la superficie, per così dire, di questa natura: la sensazione dunque per quegli uomini fu pensiero, e fu idea, e fu verità, e fu legge morale, e fu diritto, e fu politica, e fu incivilimento, e fu progresso, e fu tutto. Allora, per informare i giovanetti ad una morale eccellente, s’insegnò loro, che dovessero seguitare il piacere, loro inculcando, che nella sequela del piacere tutti i loro doveri e le virtù tutte si contenevano, perciocché il piacere, il solo piacere era il principio della vera morale. La gioventù di tutta l’Europa udì le melate lezioni di tale scuola: le s’insegnò insultare ai secoli trapassati, ed avere in dispregio, siccome rozzi e barbari, i propri padri, come quelli che mantenevano la parola anche contro il proprio interesse, che perdonavano ai propri nemici, che davano fede ad una eterna morale. E come il piacere fu principio alla morale degli individui, così l’interesse divenne principio alla morale delle famiglie, e a un interesse più complicato si condusse la morale delle nazioni, interesse che prese nome di economia politica quanto all’amministrazione interna, e quello di ragione dei stato quanto alle relazioni dei governi fra loro. I fasti della francese repubblica fanno la chiosa a questo testo: menzogna e violenza furono le due virtù splendentissime, in cui si risolse la morale della sensazione, secondo la teoria di quegli eroi, che l’applicarono sì energicamente agli affari delle nazioni»[52].

            «Pure, solamente il bene morale è ciò che perfeziona l’uomo: ché qualsivoglia sviluppo intellettuale e sociale, ove non sia ordinato ad accrescere la virtù nell’umanità, per questa è perduto, questa non diventa migliore, non aumenta la perfezione. No; la intellettiva potenza non ha un pregio finale, ma essa appartiene alla classe di quelle cose, che si possono volgere e in bene e in male, e che dall’oggetto a cui si volgono ottengono il loro valore. Il medesimo dicasi del componimento esteriore della società: le forme sociali non sono buone se non a condizione che nel fatto migliorano moralmente gli uomini: in sé possono avere, tutt’al più, una bontà speculativa, quella bontà che hanno i metodi; perché gli ordini sociali sono, per così dire, dei metodi, inventati al fine di educare le umane generazioni che si succedono: or poi la bontà del metodo non è che potenziale; cioè a dire, il buon metodo può produrre del bene, ove rettamente si adoperi, ma non è esso stesso il bene, sebbene possa produrre dei buoni effetti negli umani individui: ov’ella venga abusata, deteriora l’umanità, anzi che migliorarla: acciocché possa dirsi avanzata e perfezionata nel fatto l’umanità, conviene vedere se ella realmente e veramente sia andata innanzi nelle morali virtù, e quanto gli atti di queste abbiano progredito. La civiltà dunque, a quel modo che dagli scrittori del nostro tempo viene concepito, si dovrebbe diligentemente distinguere dalla umana perfezione, che consiste in un progresso morale; mentre invece il concetto di civiltà viene da essi ridotto ad uno sviluppo delle facoltà intellettive, e di corrispondenti forme sociali. Tuttavia civiltà e perfezione umana si sogliono confondere, o almeno si prendono per cose affini: di questo gravissimo errore è cagione, come dicevamo, l’imperfezione in cui giace ancore la morale teoria uscita testé dal sensismo, cioè il non essersi universalmente riflettuto sulla diversità immensa che passa fra l’ordine morale e l’ordine intellettivo; l’aversi cercato quello in questo, l’aver preso i progressi dell’umano intelletto per i progressi dell’umana rettitudine. E questa confusione di cose così distinte conduce la nostra gioventù a falsare pur troppo le idee sopra oggetti della massima rilevanza: mi si permetta di darne un esempio. Sebbene l’ordine intellettuale e l’ordine morale siano nati per andare insieme d’accordo, e acciocché il primo serva al secondo; tuttavia avviene sovente il contrario, avviene che l’ordine intellettuale si metta in opposizione col morale, non conservando nel suo sviluppo il rispetto dovuto a questo. E chi potrà negare che i grandi delitti, l’imprese più temerarie e più illegittime non abbiano talora contribuito ai progressi intellettivi dello spirito umano? Le eresia hanno perfezionata la Teologia: le rivoluzioni hanno tolti dei difetti inerenti all’ordine pubblico. Questi delitti sono dunque stati, almeno indirettamente, occasioni di un progresso intellettivo e sociale: quindi è che dagli scrittori si descrivono come altrettanti passi, attraverso i quali progredì la civiltà»[53].



[1] Nel sistema anglosassone di common law si indica con la locuzione habeas corpus (trad. lat. "che tu abbia il corpo") l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Ciò vale in senso stretto, poiché di solito si fa riferimento all'atto legale o al diritto in base al quale una persona può ricorrere per difendersi dall'arresto illegittimo di se stessa o di un'altra persona. Il diritto di habeas corpus nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello stato. Tale sistema è stato inserito nell'importante documento della Magna Charta successivamente a rivendicazioni di baroni inglesi.

[2] Cf. Luigi Bulferetti, Antonio Rosmini nella Restaurazione, Edizioni Rosminiane Sodalitas, 1999, 17-22.

[3] Cf. O.c., 106-107.

[4] Giov. Batt. Nicola, Il Panegirico di Pio VII, Unione Tip. Valsesiana di G. Testa, Varallo Sesia 1924, 1.

[5] Cf. Bulferetti, Antonio Rosmini nella Restaurazione, 101-102.

[6] Bulferetti, Antonio Rosmini nella Restaurazione, 103.

[7] Carteggio fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini ordinato e annotato da Giulio Botola (1901), nuova edizione anastatica presso Edizioni Rosminiane, Stresa 1996, 96 [Nostra la sottolineatura].

[8] Giorgio Campanini, Un incunabolo del ‘neoguelfismo’ il ‘panegirico di Pio VII’ di Antonio Rosmini, nel vol. misc. Rosmini e Roma, a cura di Luciano Malusa e Paolo De Lucia, Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Stresa, Fondazione Capograssi – Roma, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2000, 86-87.

[9] O.c., 90.

[10] O.c., 92-93.

[11] O.c., 94.

[12] Antonio Rosmini, Panegirico alla santa e gloriosa memoria di Pio Settimo Pontefice Massimo, Eredi Soliani tipografi Reali, Modena 1831, 131.

[13] O.c., 95-96.

[14] Karl Marx-Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, Ed. Riuniti,Roma, 1969, 87.

[15] Edward Hallett Carr, Sei lezioni sulla storia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1966, 145-149. [Titolo originale - What is history?, Macmillan & Co. Ltd, London 1961].

[16] O.c., 144.

[17] Augusto Del Noce, Le contraddizioni della filosofia della Rivoluzione, nel vol. misc. Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Atti del XXIII Corso della “Cattedra Rosmini”, a cura di Peppino Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1990, 29-30.

[18] O.c., 30-31. [Nostra la sottolineatura].

[19] O.c., 34.

[20] Antonio Rosmini, Filosofia del diritto V, a cura di F. Orestano = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 35- 40, Roma 1969, n. 1957, 1342. Cf. Mario D’Addio, Rosmini e la Rivoluzione, nel vol. misc. Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Atti del XXIII Corso della “Cattedra Rosmini”, a cura di Peppino Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1990, 69-70.

[21] Antonio Rosmini, Saggi di scienza politica. Scritti inediti, a cura di G. B Nicola, Paravia, Torino 1933, XXII-XXIII.

[22] Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1966, 258-59.

[23] O.c., 320.

[24] Mario D’Addio, Rosmini e la Rivoluzione, nel vol. misc. Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Atti del XXIII Corso della “Cattedra Rosmini”, a cura di Peppino Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1990, 72-75.

[25] Rosmini, Filosofia del diritto V, n. 2089, 1401.

[26] Umberto Muratore, Introduzione, nel vol. misc. Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, Atti del XXVII Corso della “Cattedra Rosmini”, a cura di Giuseppe Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1994, 13-14.

[27] Antonio Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Città Nuova, Roma 1997, 221.

[28] Muratore, Introduzione, nel vol. misc. Stato unitario e federalismo, 11-12.

[29] O.c., 10-11.

[30] Dal “Risorgimento” dell’1.7.1848, in La Costituente dell’Alta Itali, nel vol. Scritti politici, La Costituzione secondo la giustizia sociale. Sull’unità d’Italia. La Costituente del Regno dell’Alta Italia, a cura di Umberto Muratore, Ed. Rosminiane, Stresa,1997, 273.

[31] Antonio Rosmini, Sull’unità d’Italia, nel vol. Antonio Rosmini, Scritti politici. La Costituzione secondo la giustizia sociale. Sull’unità d’Italia. La Costituente del Regno dell’Alta Italia, a cura di Umberto Muratore, Ed. Rosminiane, Stresa,1997, 259.

[32] Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, a cura di Luciano Matusa, Ed. Rosminane, Stresa,1998, 11.

[33] Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, 29.

[34] Michele Nicoletti, Federalismo e Costituzionalismo nel pensiero di Antonio Rosmini, nel vol. Umberto Muratore, Introduzione, nel vol. misc. Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, Atti del XXVII Corso della “Cattedra Rosmini”, a cura di Giuseppe Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1994, 62-64.

[35] Franceso Traniello, Le «Cinque piaghe» e le utopie del ’48, Nel vol. misc. Il ‘gran disegno’ di Rosmini.origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di Massimo Marcocchi e Fulvio De Giorgi, Ed. Vita e Pensiero, Milao 1999, 140-141.

[36] Antonio Rosmini, Scritti politici. La Costituzione secondo la giustizia sociale. Sull’unità d’Italia. La Costituente del Regno dell’Alta Italia, a cura di Umberto Muratore, Ed. Rosminiane, Stresa,1997, 70.71.

[37] Cf. Luciano Malusa, Rosmini come “protagonista” del Risorgimento, nel vol. misc. Rosmini e Roma, a cura di Luciano Malusa e Paolo De Lucia, Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Stresa, Fondazione Capograssi – Roma, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2000, XV-LXX.

[38] O.c., 267.

[39] O.c., 268-269.

[40] Pietro Sterbini, nel 1848 dopo l'armistizio di Salasco (9 agosto 1848) cercava di incitare le folle: «O popoli armatevi, senza domandare permesso ad alcuno. L'uomo assalito da un assassino domanda forse a un altro assassino il permesso di difendere la propria vita se ha i mezzi per farlo? Voi non avete bisogno né di governi che dichiarino la guerra né di ministri che vi diano le armi. Dichiarate la guerra col fatto, cercate le armi e le avrete». Sterbini derideva Pellegrino Rossi all'epoca Ministro degli Interni nel Gabinetto costituzionale romano definendolo fra gli altri epiteti come “l'inimico d'Italia”. Ma il suo omicidio avvenuto il 15 novembre 1848 venne attribuito a Pietro Sterbini per via dei suoi discorsi istigatori tenuti il giorno prima «non ci fosse in Roma un braccio ardito capace di troncare di un colpo la vita del tiranno»[

[41] O.c., 270.

[42] O.c., 272-273.

[43] O.c., 275-276.

[44] O.c., 276.

[45] O.c., 277.

[46] O.c., 278-279.

[47] O.c., 280.

[48] Gianni Zen, Agli albori del cattolicesimo politico. Rosmini e le contraddizioni politiche del suo tempo nella “Missione a Roma”, nel vol. misc. Rosmini e Roma, a cura di Luciano Malusa e Paolo De Lucia, Centro Internazionale di Studi Rosminiani - Stresa, Fondazione Capograssi - Roma, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2000, 287-288.

[49] Pietro Prini, Rosmini, Gioberti, Gentile. Il divino nell’uomo, nel vol misc. Rosmini: il divino nell’uomo. Atti del XXV Corso della “Cattedra Rosmini” [1991], Ed. Sodalitas-Spes, Strsa-Milazzo 1992, 30.

[50] O.c., 30-31.

[51] (1) [Nota di Rosmini] “Egli è inutile il dire, che i semi di tali principi erano posti dagli uomini dei secoli precedenti. Niuno ignora che la catena delle cause e degli effetti non viene interrotta giammai: è la catena d’oro che lega il cielo colla terra, e che tiene scompaginato fra di sé l’universo reale”.

[52] Antonio Rosmini, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 23, Roma 1990, 163-164.

[53] Rosmini, Principi della scienza morale, 166-167.