Università italiane

Comune di Rovereto

Assessorato ai Servizi Sociali e Sanità

Università dell’Età Libera 2010-2011

 

ROSMINI - CHIESA - RISORGIMENTO

 

RIVOLUZIONE FRANCESE IN ROSMINI E MANZONI

            «Secondo il Rosmini gli avvenimenti francesi e la diffusione delle ideologie dell’89 mettono in evidenza la necessità di un profondo rinnovamento sociale della Chiesa, il superamento della divisione tra alto e basso clero, il recupero dell’indipendenza e della libertà delle istituzioni ecclesiastiche dal potere politico e la loro propensione a capire e guidare quelle richieste di libertà civile e di armonia tra persone, società e Stato provenienti dal corpo sociale. […] Nella Filosofia del diritto riconosce che i primi cinque articoli della Dichiarazione [dei diritti dell’uomo e del cittadino] documentano come la base e l’origine dei “naturali e imprescindibili diritti dell’uomo” risiedono nella nazione personificata nella volontà sovrana del legislatore, ma ne sottolinea ripetutamente l’indeterminatezza e la dipendenza dagli interessi politici prevalenti: “si concepì un potere vago ed assoluto che dovesse fare tutto, a cui nulla fosse illecito, nulla ingiusto, da cui ogni altro potere derivasse, ogni altro potere dovesse mendicare l’esistenza, l’autorità, la legittimità”. Il ricadere in una nuova forma di dispotismo, come è accaduto per la Rivoluzione, conferma che il problema non è mutare un regime politico con un altro, ma la concezione stessa dello Stato, che deve recuperare e tutelare la società civile. Non va recuperata, però, una società civile universale, concepita astrattamente e che comprenda i diritti di tutti, ma una società particolare che “lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli altri individui e delle altre società, ha l’intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio … in una parola una società istituita al solo fine di regolare la modalità di tutti i diritti de’ suoi membri” [Antonio Rosmini, Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città nuova, Roma 1979, 34]. Riassumendo, l’analisi che Rosmini conduce in tutta la sua esistenza sulla Rivoluzione francese si sviluppa su due tipi, collegati tra di loro, di valutazione, quello storico-politico e quello giuridico-filosofico. Per quanto riguarda il primo la Rivoluzione viene raffigurata come risposta concreta delle culture materialistiche dell’illuminismo alla visione cristiana della società e come reazione alla tirannia civile dell’assolutismo. Dal secondo tipo di valutazione deriva che la Rivoluzione francese ha aperto con le sue ombre (le manifestazioni estreme di violenza e passioni, il giacobinismo, il dispotismo della nazione, la lotta alla proprietà nobiliare e dei corpi sociali) e con le sue luci (la tutela dei bisogni della società, il ruolo assegnato all’opinione pubblica, la limitazione del potere dei governanti) ad una nuova età la storia umana: quella dei diritti di tutti (persone, corpi sociali, nazione) e della giustizia sociale»[1].

            Alessandro Manzoni, è stato in genere considerato uno ‘storico legalitario al quale il moralismo ha preso la mano’. Questa valutazione porta gli studiosi a dare poco peso e risalto agli scritti storico-politici del Manzoni. «Così le Osservazioni comparative vengono lette o come risposta del liberalismo conservatore cattolico agli eccessi della storia, o come tentativo di separare in ogni attività umana i momenti positivi da quelli negativi, oppure come una digressione dei Promessi sposi, oppure, ancora, come uno scritto riflessivo ad uso privato»[2]. In realtà il Manzoni riconosce valida una sola rivoluzione, e cioè la lotta per l’indipendenza nazionale. In una lettera a Rosmini nel 1843, il Poeta sostiene che: «”gli orrori della rivoluzione non sono venuti in gran parte dalle passioni del popolo? Le quali non so se si possano almeno in tutto, riferire, come a cagione, all’influenza delle persone educate. L’orgoglio si fa razionalista anche senza maestri. E del resto la rivoluzione ha pure avuto anche una tendenza di riforma giusta e legale, poiché fu promossa non solo dai parlamenti, ma dal re; la qual tendenza, Dio liberi che si creda aver giustificati, né scusati, né compensati gli orrori; ma, se non m’inganno, fa si che la parola medesima di rivoluzione non possa con giustizia essere usata in un senso assolutamente cattivo” [Carteggio fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini. Raccolto e annotato da Giulio Botola, L. F. Cogliati, Milano 1900, 68[3]. Il Manzoni precisa meglio il suo pensiero, analizzando attentamente il significato del termine ‘rivoluzione; infatti, egli sostiene che «il nome di rivoluzione si applica indifferentemente a due cose diverse, non solo di grado, ma d’essenza, cioè, tanto a una grave alterazione del governo d’uno Stato, quanto alla distruzione del governo medesimo. A questo secondo genere appartengono del pari i due grandi avvenimenti, sopra alcuni punti dei quali ci proponiamo di fare un compendioso confronto. L’essere, in uno dei due casi, toccata una tal sorte a un governo sol, e nell’altro a più d’uno, è una differenza accessoria che non muta punto l’essenza della cosa. Ma tra avvenimenti così vasti e così complicati, si devono necessariamente trovare anche delle differenze che tocchino l’essenza. E due principalissime ci par di vedere nei due dei più gravi effetti della prima di quelle due rivoluzioni, e dei quali la seconda potè andare immune. E furono: l’oppressione del paese, sotto il nome di libertà; e la somma difficoltà di sostituire al governo distrutto un altro governo, che avesse, s’intende, le condizioni della durata” [Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo (frammento), a cura di Pietro Brambilla-Ruggero Borghi, Rechiedei, Milano 1889, 3]. Il fine dichiarato del Manzoni è quello di dimostrare, attraverso la difesa della politica ‘liberale’ di Luigi XVI e la condanna della borghesia rivoluzionaria e dell’effetto storico dei suoi eccessi, il Terrore, che ogni rivoluzione che abbia uno scopo diverso dal conseguimento dell’indipendenza nazionale è illegittima. È un’accusa, quella di illegittimità, che non può essere adottata per la Rivoluzione italiana in quanto in essa “la libertà lungi dall’essere oppressa dalla Rivoluzione, nacque dalla Rivoluzione medesima: non la libertà di nome, […] ma la libertà davvero, che consiste nell’essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assicurato, e contro violenze private, e contro ordini tirannici del potere, e nello essere il potere stesso immune dal predominio di società oligarchiche e non sopraffatto dalla pressura di turbe, sia avventizie, sia arrolate” [O.c., 4]. […] chiare sono le influenze delle letture giovanili del Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana (1801) di Vincenzo Cuoco (1770-1823) e l’accettazione da parte del Manzoni di tre idee cardine della dottrina del Napoletano: una rivoluzione non si può trasportare e applicare pari pari da uno Stato ad un altro; libertà ed indipendenza sono concetti vuoti se non vengono collegati all’unità territoriale; una coscienza nazionale deve essere patrimonio di tutto il popolo e non solo di un’elite»[4].

BREVE EXCURSUS DELLA CENSURA

            «La nascita della stampa nella seconda metà del Quattrocento suscitò immediatamente vive preoccupazioni nella gerarchia e nella Santa Sede, allarmate dagli effetti negativi che si potevano prevedere. Non bisogna dimenticare l’esistenza, durante tutto l’assolutismo (sec. XVII-XVIII), di due censure parallele, civile (statale) ed ecclesiastica che collaboravano tra loro. Non si poteva stampare nessun libro senza il permesso delle due censure, e le proibizioni ecclesiastiche erano confermate dalle autorità statali. Le prime disposizioni sulla censura preventiva, dopo la nascita della stampa, risalgono ad Alessandro VI (1501) e al Lateranense V (1515). Seguirono l’Indice dei libri proibiti di Paolo IV, con varie edizioni diverse fra loro (1557 ss.), […] quello di Pio IV secondo i principi stabiliti a Trento(1564), quello di Clemente VIII (1594). Contemporaneamente le autorità locali moltiplicavano i loro indici e le loro regole. […] Teoricamente il principio della censura preventiva ecclesiastica su qualsiasi libro (anche di matematica) durò sino al 2 giugno 1848. Alla metà e alla fine del Cinquecento erano sorte le Congregazione dell’Inquisizione (1542) e dell’Indice (1571-1572). I due dicasteri vennero uniti solo da Benedetto XV, nel 1917. solo con Paolo VI, il 7 dicembre1965 [Lettera apostolica Integrae servandae, chiarita poi dal S. Ufficio il 14 giugno 1966], vennero modificate largamente le norme tradizionali: restava ai fedeli l’obbligo morale di astenersi dalla lettura di opere da essi stessi ritenute pericolose, erano soppresse le censure in proposito stabilite da secoli; implicitamente ma chiaramente ci si affidava alla coscienza dei singoli, sopprimendo l’obbligo anteriore di chiedere alle autorità competenti(in genere, i vescovi) il permesso di leggere le opere condannate. A metà gennaio 1998 si annunziava poi l’apertura agli studiosi degli archivi delle due antiche congregazioni, del S. Ufficio e dell’Indice (rimasti distinti, cioè separati, come si è detto, sino al 1917), sino al 1903»[5].

IL CONTESTO STORICO DELLE CINQUE PIAGHE

            Il 1° gennaio 1822 la Grecia proclama la propria indipendenza dalla Turchia. Alla immediata reazione ottomana si contrappone una alleanza anglo-franco-russa la cui flotta, il 20 ottobre 1827 cola a picco quella turco-egiziana. In Francia, le elezioni del 1828 danno la vittoria alla borghesia, ma il re Carlo X tenta instaurare un nuovo regime assolutista che, dopo le successive elezioni del 1830, sfocerà in un colpo di stato. Parigi insorge e nelle “tre gloriose” giornate del 27, 28, 29 luglio 1830 mette in fuga le milizie realiste e instaura una monarchia costituzionale con Luigi Filippo d’Orlèans, cugino del re. Dietro questa insurrezione ne esplodono altre in Belgio (che proclama la propria indipendenza dall’Olanda), Svizzera, Polonia e Italia. Nel febbraio 1831, sale al soglio pontificio Gregorio XVI (che conosceva e stimava Rosmini), che riconosce le varie costituzioni liberali e rivela un programma, che pur escludendo riforme ecclesiali “dal basso”, tuttavia non escludeva riforme canoniche atte a trovare una terapia per le “piaghe di Israele”. Il 27 aprile 1831 sale al trono del Regno di Sardegna Carlo Alberto, il quale desidera intraprendere nei propri stati una riforma del clero diocesano e regolare, in accordo con la Santa Sede. Rosmini, consultato dal vescovo di Novara cardinal Morozzo, viene coinvolto nel processo di riforme.

            Rosmini registra queste esigenze di riforma, già presenti, in campo ecclesiale, nel secolo XVIII, dove si trova la presenza di vari scrittori che mirano ad esaminare le anomalie della chiesa e suggeriscono adeguate terapie. Tornato in Piemonte dal Trentino nell’estate del 1832, in data 18 novembre dello stesso anno, il roveretano scrive nel suo Diario personale: «Trovandomi a Correzzola [presso Padova] con l’amico Giacomo Mellerio tutore del Duca Melzi a cui appartiene questa villa, cominciai a scrivere il libro Delle cinque piaghe, che poi compii l’11 marzo 1833». Per Rosmini, l’opera rientrava in quella fase di riforma generale, e in particolare di quella Albertina nella quale il filosofo trentino si trovava coinvolto. La scoperta della cospirazione della «Giovine Italia» a Genova, Torino, Alessandria e in Savoia, e il timore di ulteriori moti rivoluzionari, stemperano le iniziative di riforma della chiesa nel regno sardo. Ritornato in Trentino nella primavera del 1833 Rosmini percepisce il sospetto che inizia a circolare sulla sua persona e comprende che la spinta riformatrice subalpina, molto evidente nei primi anni della presenza del vescovo Luschin, inizia ad affievolirsi sino a spegnersi quasi del tutto. Rosmini depone le Cinque piaghe nel cassetto, attendendo tempi migliori per pubblicarlo.

            La pubblicazione delle Cinque piaghe avviene in un clima politico ecclesiale radicalmente cambiato. Il 16 giugno 1846 viene eletto papa, Giovanni Maria Mastai-Ferretti, che prende il nome di Pio IX. Il nuovo pontefice, nel luglio 1846, dopo avere concesso l’amnistia per motivi politici costituisce la Consulta di Stato, con l’inserimento dei laici al governo, inoltre consente la libertà di stampa e di associazione; a segretario di Stato nomina il cardinale Pasquale Gizzi, e sceglie monsignor Giovanni Corboli-Bussi come consigliere personale, ambedue aperti alle nuove idee. Rosmini, sempre attento all’evoluzione socio-politica dei suoi tempi, considera giunto il momento propizio per pubblicare l’opera che aveva lasciato riposare per quindici anni. Dopo avere rielaborato l’ultima parte riguardante i beni ecclesiastici, il filosofo trentino tra il dicembre del 1847 e il gennaio del 1848 fa portare il manoscritto alla tipografia Veladini di Lugano perché venga stampata in numero limitato di copie e anonima.

La stampa richiede stranamente diversi mesi. Quanto avviene in questo periodo si rivela determinante per tutto l’assetto politico europeo. Anche questa volta il centro insurrezionale è la Francia, dove, il 24 febbraio 1848, viene proclamata la repubblica e promulgata una normativa di carattere sociale. Il 3 marzo, dello stesso anno, l’Ungheria reclama la propria autonomia dall’Austria, e un proprio parlamento. A Vienna, il 13 marzo, manifestazioni di studenti e operai costringono il Metternich alle dimissioni, mentre Berlino, pochi giorni dopo, il 18 marzo, ottiene la convocazione di una assemblea costituente e l’impegno di Federico Guglielmo IV di promuovere l’unificazione della Germania. In Italia, troviamo i moti palermitani nel gennaio 1848, e in Toscana la concessione della costituzione da parte del granducato; in marzo, a Venezia, si costituisce una repubblica autonoma, e in Lombardia esplodono le cinque giornate di Milano. Negli Stati pontifici, il 14 marzo, Pio IX concede la costituzione.

Le cinque piaghe vengono pubblicate a Lugano ai primi di maggio del 1848. Nel pensiero di Rosmini quest’opera rispecchiava il ritorno alla libertà della chiesa cattolica, svincolata dai legami politico economici con i quali le varie nazioni avevano tentato in vari modi di asservirla ai voleri dei vari sovrani. In breve tempo, le pubblicazioni si moltiplicano e il libro viene conosciuto in tutta Italia, suscitando le adesioni più entusiaste e le opposizioni più ostili. Queste ultime prevarranno al punto tale che, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, alcuni cardinali della congregazione dell’Indice, si radunano per condannare e inserire nell’Indice dei libri proibiti, le Cinque piaghe della Santa Chiesa trattato dedicato al clero cattolico e La costituzione secondo la giustizia sociale di Antonio Rosmini, Il Gesuita moderno di Vincenzo Gioberti, e il Discorso funebre pei morti di Vienna, recitato il giorno 26 novembre 1848, nella insigne chiesa di S. Andrea della Valle, di Gioacchino Ventura. La data della condanna risale a “Gaeta, 6 giugno 1849”.

            Rosmini nel Diario personale offre precise date per la composizione dell’opera: «Trovandomi a Carrezzola [presso Padova] coll’amico Mellerio tutore del Duca Melzi a cui appartiene questa villa, cominciai a scrivere il libro Delle cinque piaghe, che poi compii l’11 marzo 1833 [a Domodossola]».    Rosmini conosceva bene i vari periodi storici nei quali con maggior clamore si mettevano sotto accusa gli orientamenti mondani della Chiesa e con forza si richiedeva un rinnovamento sia nella gerarchia ecclesiale, sia nella base del popolo di Dio. Nel Settecento due grandi predicatori apostolici cappuccini, Bonaventura Massari da Recanati e Francesco Maria Casini da Arezzo, nelle loro prediche quaresimali ai pontefici, utilizzavano il modello delle piaghe di Cristo per evidenziare quelle della Chiesa. Ma il Roveretano era stato coinvolto, tramite il cardinal Morozzo, al tentativo di Carlo Alberto di Savoia – salito al trono il 27 aprile del 1831 – di rinnovare il clero del proprio Stato, con il consenso di Gregorio XVI, al quale il re sabaudo aveva inviato un memoriale di cinque punti: riabilitazione dei seminari diocesani, depotenziamento dei Capitoli delle cattedrali, risanamento morale del clero, revisione generale delle congregazioni e degli ordini religiosi, riorganizzazione degli studi teologici. Il Morozzo aveva investito l’abate trentino di quest’ultimo punto, affidandogli l’incarico della riforma degli studi dei cappuccini nel Regno sardo. Anche il nuovo pontefice, Gregorio XVI, eletto il 2 febbraio 1831, esprime il proprio intento di risanare le «piaghe di Israele», convinto che la riforma deve concretarsi tramite un programma esteso e promosso dal magistero ecclesiale. Rosmini legge tutti questi segnali come indicazioni sufficienti per esporre in un libro gli orientamenti che la Chiesa dovrebbe seguire per dare principio ad una riforma nel capo e nelle membra. Il nobile roveretano è convinto che i mali della Chiesa non siano realtà autonome, slegate tra loro. Egli è persuaso che vi sia una consequenzialità tra gli errori, i peccati e le anomalie del nuovo popolo di Israele. Così, secondo Rosmini, non è sufficiente individuare singole piaghe, ma occorre scoprirne la causa prossima, per poter giungere alla causa prima.

PUBBLICAZIONE DELLE CINQUE PIAGHE

            Rosmini si trasferisce a Milano nei primi giorni di aprile de l848 per la pubblicazione della Costituzione secondo la giustizia sociale, opera alla quale il roveretano attribuiva enorme importanza. All’opera era legata un’appendice sull’Unità d’Italia. Il testo aveva vari legami con le Cinque piaghe: «Oltre al tenue velo dell’anonimato – giustificato da Rosmini, per la costituzione, con l’intento di “rispettare la sorte dei suoi ostaggi [cioè dei suoi confratelli] in mano all’Austria” – e oltre alla contemporaneità della stampa e poi della loro diffusione, le due opere erano connesse da altri più consistenti fattori, come vedremo. Sicché, alla fine, seguirono un cammino comune ed ebbero un destino intrecciato: fino al punto che Rosmini, nel rimaneggiare l’anno successivo il testo delle Cinque piaghe in vista di una nuova edizione, mise mano, nello stesso tempo e per lo stesso scopo, ad un’ampia revisione della Costituzione, rimasta anch’essa inedita, senza sapere che, ai primi di giugno, le due opere affiancate erano già cadute sotto la condanna dalla Congregazione dell’Indice (di cui, paradossalmente, rosmini era divenuto consultore l’anno prima). Sulle Cinque piaghe e sulla loro ricezione vennero così a riverberarsi, sin dall’inizio, i contenuti e le intenzionalità della Costituzione; e tale sovrapposizione ebbe la sua parte nel produrre quello slittamento di senso delle Cinque piaghe, cui si è innanzi fatto cenno. In realtà tutto induceva a pensare che l’autore avesse inteso proporre, in due opere parallele e simultanee, un piano di riforma costituzionale valida per lo Stato e un analogo progetto di riforma valido per la Chiesa. […] Ma, soprattutto, l’abbinamento delle Cinque piaghe alla Costituzione era stata suggerita dallo stesso Rosmini quando nell’articolo terzo del suo progetto, inserito nel titolo primo dedicato ai principi fondamentali dello Stato, aveva previsto di costituzionalizzare la “libertà d’azione” della Chiesa cattolica, specificandone in tre punti i tratti essenziali: la libertà di comunicazione diretta delle chiese locali con la Santa Sede; la libera indizione dei concilii, cioè dei sinodi; e le elezioni dei vescovi “a clero e popolo secondo l’antica disciplina, riservata la conferma al Sommo Pontefice”»[6].

            Il canonico Giuseppe Gatti, direttore del periodico “Fede e Patria”, cercando di riportare il pensiero di Rosmini, nel suo articolo del 19 maggio 1848, asseriva che il Roveretano si sforzava di “ricondurre, come in antico, l’elemento democratico perfino negli ecclesiastici reggimenti”. Rosmini, preoccupato che tale interpretazione potesse divulgarsi, e sul medesimo periodico precisava che «il suo intendimento era quello di garantire che le elezioni episcopali fossero “fatte liberamente dalla Chiesa stessa, cioè dalla ecclesiastica podestà”, confermava tuttavia e rendeva ancor più vincolante l’esigenza “che nelle elezioni sia ascoltata la plebe cristiana, che ne sia realmente raccolta la testimonianza, che quella non sia forzata ne pur moralmente a ricevere un Pastore in cui non ha confidenza, e che forse neppure conosce né di volto, né d’opere, né di fama, mentre le pecore conoscono il loro pastore come ha detto Gesù Cristo”; e giungeva infine, sotto il velo di un affermato agnosticismo circa le procedure delle elezioni episcopali, a una conclusione ancor più compromettente: “Io non dico in qual modo ciò si debba fare: questo è un’altra questione: sarà da cercare il modo più opportuno: è certo intanto, che un modo possibile non può mancare in un tempo, nel quale il popolo nomina senza inconvenienti, i suoi rappresentanti al parlamento. A me basta di stabilire che l’intervento del popolo nelle elezioni vescovili limitato a quello che gli spetta, è anch’esso un diritto divino, e naturale divino, cioè procedente dalla natura della istituzione dei Pastori”. […] La questione delle elezioni episcopali costituiva dunque la principale arcata del ponte che collegava le Cinque piaghe alla Costituzione. Ma la costituzione era stata pensata da Rosmini non in astratto, bensì some base dell’erigendo (e ritenuto imminente) Stato italiano: sicché quel ponte finiva per prolungarsi sino a toccare le sponde della questione nazionale, e i fondamenti del nuovo Stato. S’impongono allora alcuni interrogativi: seguendo quale logica Rosmini era addivenuto all’idea di sanzionare nella Costituzione del futuro Stato nazionale il principio della “libertà della Chiesa” vincolando nello stesso tempo con norma costituzionale le modalità di elezione dei vescovi? A parte ogni altra considerazione di opportunità o di principio, era consapevole rosmini del fatto che un progetto costituzionale cosiffatto avrebbe condizionato la interpretazione delle Cinque piaghe, polarizzando l’attenzione sul problema delle elezioni vescovili, sino a farne la chiave di volta dell’opera che in realtà spaziava su altri e ben più vasti orizzonti? E non contribuì lo stesso Rosmini a forzarne il senso in questa riduttiva e pregiudiziale direzione, con l’esprimere pubblicamente, nella seconda lettera pubblicata in “Fede e Patria” l’8 settembre 1848 la convinzione che “non vi sia un solo capo, in cui si possa domandare qualche riforma nelle cose della Chiesa, a cui mediante la libera elezione dei Prelati non si potesse soddisfare”?»[7].

            In Rosmini il principio della libertà della Chiesa esprimeva due tendenze: in primo luogo solo in una Chiesa libera dai condizionamenti esercitati dai sovrani temporali, che erano frutto della mescolanza tra potere politico e potere religioso, lo spirito vitale della Chiesa avrebbe ripreso il suo posto centrale nella vita di fede; in secondo luogo, la libertà dal potere secolare avrebbe permesso alla Chiesa di recuperare il proprio ruolo di difensore, di portavoce e di rappresentanza del popolo nei confronti di quello stesso potere.

            Il concetto di ‘libertà della Chiesa’ secondo Rosmini, si colloca in un piano diverso rispetto alle istanze separatiste di impianto liberale. Rosmini evitava di coinvolgere la Chiesa nell’esercizio del potere di ‘governo’, ma non esitava a considerare la Chiesa come l’unica depositaria di quei valori etico-giuridici, che nel sistema della società civile avevano un forte riscontro costituzionale. Il compito istituzionale della Chiesa si reggeva sulla separazione tra il suo ruolo di tutela dei diritti universali di libertà dal ruolo legislativo e di governo. «Ma, nella situazione italiana, era inconcepibile per Rosmini un sistema di società civile che non implicasse un coinvolgimento istituzionale della Chiesa. Tanto è vero che, dopo aver a lungo dissertato sul carattere elettivo del tribunale politico, affidandone la scelta al suffragio universale e diretto, Rosmini, nei progetti di costituzione per lo Stato romano ma anche nello scritto sull’Unità d’Italia (e altrove), non esitava ad attribuire ad un organo ecclesiastico come il Concistoro presieduto dal pontefice, il ruolo di “alta corte di giustizia politica”, cioè, per l’appunto, di tribunale politico di ultima istanza. […] Si insinuava l’idea che la “rappresentanza”del popolo, assicurata dalla Chiesa più che dal sovrano, e realizzata attraverso l’elezione dei vescovi, si trasmettesse naturalmente ai vertici ecclesiastici, consentendo loro, in nome della religione, anche l’esercizio di un ruolo costituzionale di “giustizia e di pace”. Troppo numerosi e troppo rilevanti erano gli spunti sviluppati nelle Cinque piaghe che si proiettavano e pervadevano il discorso politico-nazionale rosminiano nel 1848, perché il loro autore potesse pensare di non compromettere la sua opera su quel terreno. Il tema dell’elezione dei vescovi era realmente, in quel contesto, una specie d’architrave, di punto d’attacco di un sistema che mirava a de-politicizzare il corpo della Chiesa, riservandogli nel contempo un ruolo di suprema garanzia giurisdizionale oltre che di consenso e di unità nazionale. La proposta rosminiana di elezione dei vescovi assumeva un intrinseco valore politico, oltre ad implicare per la Chiesa del tempo un’evidente rottura istituzionale. Non è dunque sorprendente che l’argomento venisse ampiamente utilizzato contro Rosmini, e diventasse alla fine la ragione preminente della condanna delle Cinque piaghe. Desta semmai qualche meraviglia, che ancora per qualche tempo, all’indomani della divulgazione delle sue opere più compromettenti, Rosmini potesse svolgere ruoli di grande prestigio e di indiscussa autorità in occasione della sua missione a Roma. Che le acque si chiudessero, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga del papa a Gaeta, era nell’ordine delle cose. Ma che, prima di allora, a Rosmini potesse toccare la porpora cardinalizia o addirittura, come si ventilò, la segreteria di Stato vaticana può essere annoverato tra gli aspetti più sorprendenti dell’anno dei miracoli»[8].

OPPOSIZIONI A ROSMINI

            Non mancarono le critiche a Rosmini. Il primo attacco diretto libro apparve nel 1841 con il libro Alcune affermazioni del signor Antonio Rosmini-Serbati prete roveretano con un Saggio di riflessioni scritto da Eusebio Cristiano, 1840, uscito anonimo e diffuso clandestinamente. Si scoprirà che l’opuscolo era opera del Gesuita Pio Melìa, ma più persone avevano collaborato, tanto che Rosmini affermava che “Eusebio non è una persona, è uno sciame”. Rosmini sino ad allora aveva pubblicato solo opere filosofiche, come il Nuovo saggio sull’origine delle idee, i Principi della scienza morale, il Rinnovamento della filosofia in Italia, la Storia comparativa e critica dei sistemi di morale, l’Antropologia ed altri. Tutti libri ricevuti con grande apprezzamento dalla critica, e dagli stessi gesuiti. Ma nel 1839, anno in cui Gregorio XVI approvava l’Istituto della Carità, il fondatore , Rosmini, pubblicava il Trattato della coscienza morale che urtò la sensibilità di alcuni gesuiti, dato che l’autore avanzava alcune critiche al p. Segneri, gesuita. Nel dettare quest’opera, Rosmini aveva dichiarato ad uno dei suoi: “Mi tirerà addosso grandi persecuzioni”, e così avvenne. Nell’opuscolo dell’Eusebio Cristiano, Rosmini viene accusato di propagare “dottrine mortifere” simili a quelle di Calvino, Lutero, Giansenio, Molinos, Baio, Quesnel altri eretici. Ricevuta copia dal cardinale Tadini, arcivescovo di Genova, Rosmini, nello stesso anno, pubblicò il testo Risposta al Finto Eusebio Cristiano [Ed. Boniardi-Pogliani, Milano 1841]. La polemica si propaga sui giornali; gli avversari divulgano opuscoli anonimi dove Rosmini viene dichiarato eretico, gli ecclesiastici si dividono in favorevoli e contrari. Il Gioberti, che contro Rosmini aveva scritto Degli errori filosofici di Antonio Rosmini, di fronte a questi attacchi non esita a prendere le difese del Roveretano, e nel Gesuita moderno [che verrà condannato all’Indice con le Cinque piaghe] del 1846, scriverà: “Finché l’illustre ecclesiastico si contentò di filosofare, voi [gesuiti] lo lasciaste dire, e spesso ne citaste con lode le opinioni: ma quando dalla difesa del suo ente possibile egli passò all’assalto del vostro probabile; e non contento di giovare alla Chiesa con i libri volle farlo con un’istituzione, fondando la pia congrega dei preti della Carità, la scena mutò ad un tratto; e il valentuomo, di pio e buon cattolico che era dianzi, diventò ad un tratto un uomo di sospetta fede e per poco un eretico o un miscredente. È [...] Ora chi è il Rosmini? Egli è un prete di santi costumi, di probità specchiata, di fede incorrotta, di zelo operoso per la salute delle anime; egli è di più institutore di una congregazione religiosa approvata dal sommo Pontefice, che ratificando l’Istituto lodò espressamente l’ingegno, la dottrina, la pietà dell’autore”[9]. Il 1° marzo 1843, Gregorio XVI incontra una congregazione di cardinali, per ascoltare il loro parere. Il 7 marzo 1843, viene comunicato a Rosmini e al generale dei gesuiti, p. Giovanni Roothan, un ‘decreto di silenzio’.

CRITICHE INIZIALI ALLE CINQUE PIAGHE

            Tra le prime critiche a Rosmini, in Piemonte, troviamo quelle del canonico Giuseppe Gatti, direttore del giornale di Casale Monferrato Fede e Patria. Da parte del Gatti, «l’autore delle Cinque piaghe era rimproverato di voler “ricondurre l’elemento democratico perfino negli ecclesiastici reggimenti”, di aver definito “diritto divino” la partecipazione del clero e del popolo all’elezione de vescovi, di non spiegare a sufficienza il nuovo modo di elezione che egli proponeva, di non valutare obiettivamente l’opposizione dei sovrani a rinunziare ai loro antichi diritti su questa materia, di fondarsi troppo sul Fleury, le cui opere erano state più volte criticate, sino ai tentativi dell’Inquisizione Romana di impedire l’edizione veneta della sua Storia. A Roma poi lo stesso card. Castracane, amico del filosofo, osservò che considerare “la divisione del clero dal popolo nel pubblico culto” come una piaga della Chiesa avvicinava Rosmini ai giansenisti, che vorrebbero “l’uso della lingua volgare nei sagri misteri”.

            Rosmini in tre lettere al canonico Gatti dell’8 giugno, 21 ottobre, 1° novembre 1848 chiarì il suo pensiero. Il popolo poteva intervenire solo con il consiglio; egli aveva parlato di “diritto divino morale”, non “costitutivo” (“il diritto che ha la Chiesa di essere libera, come in tutte le sue funzioni, così anco nell’elezione dei propri pastori”); il popolo potrebbe indicare in appositi registri i suoi desideri e pareri sugli eventuali candidati; le difficoltà dei sovrani si potevano superare; egli aveva citato Fleury per “prendere il buono da tutti”, ritenendo ingiusto condannare in blocco un autore solo perché si trovavano in lui “alcune idee criticabili”.

            Pio IX intanto suggerì al Rosmini di chiarire bene le proprie idee in una lettera indirizzata direttamente al papa. Ci si accordò facilmente sulla via da seguire: mons. Corboli Bussi, uno dei più intelligenti ed aperti consiglieri del pontefice e ancora largamente ascoltato, nonostante l’insuccesso della sua missione al campo di Carlo Alberto nell’aprile di quell’anno, avrebbe indicato all’autore tutti i punti da chiarire. Ma proprio in quei giorni, nella situazione sempre più incerta di Roma, che sarebbe culminata con la rivoluzione del 16 novembre e la fuga del papa da Roma il 24 dello stesso mese, “La Correspondance de Roma”, sostenuta dai clericali francesi, chiaramente antirivoluzionaria, diretta dall’abate Francesco Battelli, pubblicò delle critiche alle proposte sull’elezione dei vescovi avanzate dal Rosmini nelle Cinque piaghe, che secondo l’autore travisavano il suo pensiero. […]

            Ben più grave, comunque, fu il parere redatto il 4 novembre 1848 dal domenicano padre Giacinto de Ferrari, allora poco più che quarantenne, prefetto della Biblioteca Casanatense […] fautore di una scolastica deteriore, grande lavoratore, ma superficiale, affrettato, propenso a giudizi taglienti e drastici. Egli critica il titolo stesso dell’opera, Delle cinque piaghe, che offenderebbe “le pie orecchie” dei fedeli. L’uso del latino nella liturgia non costituisce alcuna piaga, anzi l’abolizione di questa lingua costituirebbe una “piaga legifera”, contraddirebbe l’Auctorem fidei e la sua condanna del Sinodo di Pistoia, tenderebbe a costituire una “Chiesa italiana”. L’autore poi esagera criticando l’insufficiente educazione del clero e le condizioni dei seminari: “Quadro indecoros(o) ed esagerat(o)”, tracciato da che “sempre vede quel che vuol vedere, non quel che è”. “Generalmente parlando […] vi sono ottimi seminari, ottimi vescovi e valorosi professori”. “Le eccezioni confermano la regola”.

            Anche la pretesa terza piaga non esiste: l’autore eccede nel descrivere la comunicazione personale ed epistolare tra i vescovi antichi e la scarsa unione nell’episcopato nell’età moderna. Da qualche fatto particolare non si possono dedurre conseguenze generali, né le ricchezze del clero sono state causa di gravi mali nei fedeli. Più severa è la critica alla quarta piaga: Rosmini eccede nei termini (“diritto divino” del popolo alla partecipazione alle elezioni dei vescovi), nella ricostruzione della prassi effettiva dei primi secoli, nelle critiche alle concessioni fatte dai pontefici ai sovrani. “Risulta pertanto esser chimerica tal piaga nel senso dell’autore; esser giusta la disciplina odierna della Chiesa in tal bisogna”. Infine, il sistema proposto per l’amministrazione dei beni ecclesiastici è irrealizzabile nei tempi moderni. In conclusione, Rosmini vorrebbe “riformare totalmente l’attuale costituzione della Chiesa, e richiamarla ai primi tempi. Impresa che presenta del fantastico e dell’impossibile […]. Le dottrine in tal libro contenute urtano il diritto Pontificio ed ecclesiastico, e non sono intieramente ammissibili dalla S. Sede, ma censurabili secondo le regole dell’Indice. Per la qual cosa è necessaria una ritrattazione …”»[10].

RELAZIONE SULLA COSTITUZIONE SECONDA LA GIUSTIZIA SOCIALE

            Nello stesso periodo in cui veniva alla luce la relazione del de Ferrari, veniva affidata alle competenti autorità anche un altro parere, questa volta sulla Costituzione secondo la giustizia sociale, che Rosmini aveva già pubblicato. Questo secondo consultore pone osservazioni sulla nomina dei vescovi e sui rapporti fra Chiesa e Stato. «Sul primo problema, il censore pensa che la prassi antica non fosse così universale come è detto nelle Cinque piaghe, che non è chiarita la parte allora spettante al popolo (testimonianza, consiglio, non suffragio), che il papa può anche modificare l’elezione fatta dal clero e dal popolo, che l’espressione “diritto divino” non è esatta (“La partecipazione del popolo nelle antiche elezioni fu di diritto meramente ecclesiastico …”), che anche fra i vescovi di nomina regia si incontrano persone canonizzate. Ma soprattutto nella questione dei rapporti Chiesa-Stato si avverte la radicale opposizione delle due mentalità. “Si viene a riconoscere l’indipendenza della Chiesa ma con l’abrogazione assoluta di ogni privilegio e di ogni legge che assicuri alle sue decisioni la cooperazione dello Stato”. Non per nulla sicuro, secondo il censore, che magistrati acattolici siano del tutto obiettivi. “Il mantenere in qualche modo nei giudizi criminali la riverenza dovuta al carattere sacerdotale, è un dovere dei governi che ha il suo fondamento nello stesso diritto divino”. Anche le immunità reali, sebbene concessione statale, hanno la loro “ragione politica”: “i beni della Chiesa sono beni dei poveri”, e come tali devono restare esenti da imposte. Né sembra opportuno attribuire allo Stato il giudizio sulla moralità o irreligiosità di una società religiosa. In ogni caso, una riforma così radicale come quella proposta dal Rosmini deve essere attuata con gradualità, “a poco a poco e non repentinamente, per evitare abusi”. Infine lo Stato ha un reale dovere di aiutare la Chiesa sia pure nella misura e nei modi proporzionati alle circostanze: “può diminuirsi, può cessare del tutto, ma finché dura la possibilità di adempierlo in qualche parte, è sempre un dovere”. E proprio per questo non sembra ammissibile un’illimitata partecipazione degli acattolici ai diritti politici, alla voce attiva e passiva nelle elezioni politiche. Una via di mezzo (l’ammissione dei non cattolici nelle camere con il diritto di prender parte unicamente alle discussioni sulle finanze e sulle spese dello stato) in pratica è irrealizzabile»[11].

            L’esame sul testo della Costituzione secondo la giustizia sociale presenta maggior equilibrio e moderazione, ma riflette la mentalità della curia romana che nel 1848 seguiva ancora la linea tradizionale. La corrispondenza con la Francia tra marzo e maggio 1848 e la redazione del concordato con la Toscana (30 marzo 1848), mai ratificato, indicano questo orientamento e l’obiettivo di ottenere la totale libertà della Chiesa, unita alla richiesta, per quanto possibili, di appoggio dello Stato in difesa della vita morale. Corboli-Bussi fa sapere a Rosmini che le due relazioni erano state consegnate al Papa. La prima relazione apparteneva probabilmente al polemico e focoso gesuita Antonio Ballerini, insegnate presso il Collegio Romano, che raccoglieva 327 tesi anti-rosminiane, ma cui non sembra che il Corboli-Bussi abbia dato grande importanza. Il secondo rapporto riguardava cinque punti di rilievo al pensiero di Rosmini: 1) dire che le elezioni dei vescovi a clero e popolo sono di diritto divino; 2) manifestare inclinazione per l’introduzione del volgare nella liturgia; 3) parlar male degli scolastici; 4) dire che i fatti sono di diritto divino; 5) richiedere la separazione fra la Chiesa e lo Stato. Rosmini rispose al prelato che il suo pensiero era diverso, chiede tuttavia al Corboli-Bussi che sia lui stesso a estendere la risposta al Pontefice. La cattiva salute del Corboli ritardano lo scritto, tanto che solo alla fine di dicembre del ’48 Rosmini riceve a Gaeta la lettera per Pio IX, preparata dal prelato. Rosmini la presenta al papa “con leggerissimi mangiamenti”.

LETTERA DI ROSMINI AL PAPA

            «Rosmini dichiarava di riconoscere “le altissime ragioni” che avevano indotto la Santa Sede a rifiutare il volgare nella liturgia e di aderire a questo punto alla decisione dell’Auctorem Fidei [si tratta della Bolla di Pio VI, del 28 agosto 1794, dove vengono condannate le tesi avanzate nel Sinodo di Pistoia del 1786, che presentava orientamenti gallicani e giansenisti]; di non condannare la scolastica, “ma sì quell’uso per cui si è talvolta implicata la maestà della Teologia in aride e supervacanee questioni, o si è fatto prevalere l’elemento razionale a quello certissimo e splendidissimo della tradizione costante e universale della Chiesa”; di riconoscere di diritto ecclesiastico, e in definitiva di competenza della Santa Sede, stabilire il modo concreto della nomina dei vescovi; l’espressione “diritto divino”, relativa a i fatti, nel contesto usato indicava solo che “infatti essendo voluti o permessi da Dio, dimostrano nel loro incatenamento e nel loro risultato i disegni della Divina Provvidenza”; egli difendeva il pieno diritto della Chiesa alla sua libertà nella legislazione, giurisdizione e magistero, aggiungendo però: “Credo altresì che possano disobbligarsi i Governi dal proteggere la religione cattolica, quanto comportano, secondo i tempi, le condizioni della società civile”. La rinunzia alle immunità ovviamente non era una questione facile, da risolversi subito. Eventuali giudizi storici pericolosi per l’abuso che se ne poteva fare potevano essere chiariti dall’affermazione fondamentale che i cambiamenti disciplinari potevano essere decisi solo dalla Chiesa, “e principalmente dal Romano Pontefice”, di cui Rosmini riconosceva esplicitamene il primato. La lettera si chiudeva con la ferma protesta di “condannare in esse [le sue opere] qualunque cosa fosse per condannarvi la Santità Vostra; e anche dove l’opinare è libero, professo le opinioni della Chiesa e rifiuto le contrarie”.

            Pio IX a Gaeta dette un’occhiata alla lettera e si limitò a dire al Rosmini: “Il punto in cui parlate delle elezioni vescovili a clero e popolo non sembra abbastanza esplicito”. Rosmini si dichiarò pronto a conformarsi ai suoi desideri in tutto, a seguire i suggerimenti che avrebbe ricevuto. Nelle settimane seguenti le circostanze concrete e l’atteggiamento della curia a Gaeta persuasero l’abate a trasferirsi a Napoli presso i Lazzaristi, e lì seppe dal Superiore, Spaccapietre, più tardi incaricato di delicate missioni, da Haiti al Medio Oriente, che Pio IX attendeva la rielaborazione della lettera a lui consegnata. L’abate, il 10 febbraio [1849], scrisse di nuovo al papa, che aveva atteso i suggerimenti promessi, che in ogni modo aveva rifatto il paragrafo relativo all’elezione dei Vescovi e che lo rimetteva al pontefice pronto ad inserirlo in una nuova copia della lettera se fosse stato approvato. Tutto fu inutile. Alle spalle di Rosmini si agitavano i suoi avversari, i rappresentanti dell’Austria convinti che il Rovertano costituisse un grave pericolo per l’impero austriaco, Giacomo Antonelli [Sonnino, 2 aprile 1806Roma, 6 novembre 1876], i cardinali conservatori. I motivi dell’opposizione erano complessi: l’ambiguità almeno apparente di alcune espressioni usate dal Rosmini; l’amarezza per tutti gli eventi del 1846-1849, che avevano portato dall’entusiasmo per Pio IX al crollo delle speranze politico-nazionali riposte in lui, alla Rivoluzione del 1848, alla fuga a Gaeta; l’incertezza per il futuro davanti a una Roma repubblicana decisamente ostile al papa, e su cui si spargevano a Gaeta e a Napoli le notizie e le voci più allarmanti; l’incapacità di cogliere i segni dei tempi, e la convinzione della necessità di dover opporre un baluardo ad ogni riforma, sempre di esito incerto, in quel momento pericolosissima: l’involuzione anticostituzionalista in cui era caduto Pio IX, il conservatorismo della maggior  parte del Sacro Collegio e della curia romana; la visione negativa della libertà in genere, della libertà all’interno della Chiesa in specie; la convinzione della necessità di rafforzare l’autorità in genere, nella società civile e soprattutto all’interno della Chiesa. Prevaleva ormai negli ambienti vicini al papa un indirizzo ecclesiologico ultramontano, gerarchico, accentratore, antiliberale, ostile ad ogni concessione, dominato più o meno inconsciamente da quello che è stato chiamato “il complesso di stato d’assedio”. In queste condizioni non meravigli che sia maturata la decisione di sottoporre le due opere di Rosmini all’esame di consultori appositamente nominati dalla Congregazione dell’Indice. La curia si trovava in una situazione di emergenza. Le congregazioni, a Napoli, funzionavano come potevano. Il card. Mai, prefetto dell’Indice, aveva dato le dimissioni (scoraggiamento, amarezza?). era stato sostituito dal card. Brignole, il cui atteggiamento si può dedurre dal suo filogesuitismo e da sorda ostilità che mostrò qualche anno dopo nei confronti del moderato, aperto, filosabaudo mons. Charvaz, scelto proprio per questo da Pio IX come arcivescovo della difficile sede di Genova, divisa tra conservatori e progressisti»[12].

I 4 RELATORI NAPOLETANI

            In data imprecisata le due opere di Rosmini vennero affidate all’esame di quattro sacerdoti napoletani: Andrea Ferrigni, Raffaele Piscopio, Francesco Celentano, Francesco Saverio Apuzzo. Quest’ultimo, nato a Napoli nel 1807, nipote del card. Caserta arcivescovo di Capua, ordinato sacerdote nel 1830, seppe unire un’intensa attività pastorale a studi seri, che gli meritarono presto la cattedra di Scrittura e di Teologia nell’Università di Napoli. Nel 1842 venne chiamato a corte come precettore dei figli di Ferdinando II. Vescovo titolare di Anastasiopoli nel 1854, dal 1848 al 1854 era stato “Presidente alla pubblica istruzione”, carica corrispondente con ogni probabilità a quella del Ministro della Pubblica Istruzione. Arcivescovo di Sorrento nel 1855, seguì, come gli altri prelati meridionali, la linea intransigente e filoborbonica, che gli procurò circa un anno di esilio a Marsiglia. Nel 1871, il papa lo promosse alla sedi di Capua, vacante dal 1863 per la morte del card. Cosenza e il difficile problema delle nomine vescovili ai primordi del nuovo Regno. Cardinale nel 1877, in una delle ultime ‘infornate’ cardinalizie di Pio IX, morì nel 1880. Andrea Ferrigni (Napoli 1799-1859) insegnò Scrittura nell’Università di Napoli, dal 1833, e dal 1844 al 1859 pubblicò le Istituzioni bibliche; nel 1848 insieme a Francesco De Sanctis fece parte della commissione di revisione della università, attirandosi forse per questo le critiche di un liberale come Vittorio Imbriani. Raffaele Piscopio (1790-1875), sacerdote nel 1816, insegnò Storia ecclesiastica, poi Teologia. Canonico della metropolitana dal 1837, all’avvento del Riario Sforza sulla sede napoletana (1845) fu nominato rettore del seminario urbano, che accoglieva i seminaristi nati proprio a Napoli, con notevole successo. Nominato vescovo di Ma zara del Vallo in Sicilia, riuscì a evitare l’impegno, ma continuò nella capitale partenopea un’instancabile attività pastorale e caritativa, specie nelle non rare epidemie di colera. Di Francesco Celentano, morto nel 1862, fu canonico della metropolitana. Napoli in quegli anni attraversava un periodo di intenso risveglio culturale: nel 1841 era nata con Gaetano Sanseverino la rivista “Scienza e Fede”, e in quell’ambito proprio il Sanseverino, il Taparelli d’Azeglio, il Liberatore, si prodigavano per il risveglio del neotomismo. Resta però un dato di notevole importanza in quanto Napoli rimaneva una cattedrale nel deserto, mentre la statura intellettuale e morale dell’imputato [Rosmini] sovrastava largamente quella dei suoi giudici.

            Sono rimaste solo due relazioni, quella del Piscopio e del Celentano.

LE DUE RELAZIONI

            Secondo Piscopio, nelle Cinque piaghe di Rosmini, sembrerebbe che la Chiesa da vari secoli non esista più sulla terra, tanto è viziata dall’ignoranza, dalla disunione, dall’irregolare elezione dei vescovi, dalle servitù imposte dai principi secolari. Inoltre, la Costituzione secondo la giustizia sociale lascia aperto l’adito alla tolleranza dei culti, è contraria alla religione di Stato, nega alla Chiesa la possibilità di chiedere l’appoggio al braccio secolare. Per cui – secondo Piscopio – l’autore approva esplicitamente la ribellione se essa restituisce alla Chiesa la sua libertà, giudica lo Stato costituzionalista più conforme al Vangelo, rifiuta la sanzione civile alla censura ecclesiastica. In questo modo, l’opera costituisce un “tessuto spesso di menzogne tendenti a giustificare la ribellione degli stati italiani specialmente col manto della religione e dello zelo per la libertà della Chiesa. Rosmini “approva quanto si è fatto per l’unità italiana, anche l’abdicazione forzata dei Duchi di Parma e Modena, e quantunque non parli di forza da farsi ai sovrani armata manu perché vuole mezzi onesti, non vede quanto siano pericolose tali dottrine in questi tempi” e conclude: “Speriamo che l’autore voglia riparare allo scandalo che hanno prodotto questi suoi sentimenti, e rimarginare questa vera piaga che in questi tempi di prova [sic] è forse incautamente aperta nel seno della Chiesa.

            Il Celentano non approva la visione rosminiana di un muro di divisione tra clero e popolo, dato che la Chiesa fa di tutto per spiegare al popolo “le verità necessarie a sapersi per la vita eterna”; il filosofo sembra far dipendere l’efficacia dei sacramenti dall’intelligenza di chi li riceve, parla in termini troppo foschi della condizione dell’umanità decaduta. Più volte l’abate si scaglia contro la teologia scolastica, mette in ridicolo i professori dei seminari, “sostiene che all’istruzione del clero non bastano neppure le opere dei Santi Padri”, ma tutto deve essere fatto a viva voce dal Vescovo. Così facendo, critica tutti i papi e tutti i vescovi, e la sua critica “sapit Haeresim”, perché suppone che la Chiesa abbia potuto sbagliare in cose di tale rilievo. Rosmini, “poco pratico in teologia e meno in canonica”, confonde una concessione con un diritto (a proposito della nomina dei vescovi), rifiuta l’uso di mezzi coattivi a difesa delle leggi, contro quanto insegnato nell’Auctorem Fidei, mette in pubblico i mali della Chiesa, attribuendoli solo a questa, a sua colpa, senza ricordare la lotta dei settari contro di essa.

LA COMMISSIONE

            «Sembrerebbe che queste osservazioni facessero serie impressioni sui membri della congregazione dell’Indice presenti a Napoli. Né poteva essere diversamente, per la diversa struttura morale ed intellettuale dell’imputato e dei giudici e per il clima generale del momento. Si direbbe comunque che si sia voluto procedere con una certa fretta. Il 29 maggio nel convento di S. Domenico Maggiore a Napoli si tenne la riunione preparatoria, alla presenza del prefetto card. Brignole, dei censori che avevano esaminato l’opera (colla significativa assenza, per motivi di salute, veri o presunti non sappiamo, dell’Apuzzo, di mons. Pio Bighi, vescovo di Listri dal 1847, di mons. Cannella, più tardi, dal 1853 al 1859, segretario della Congregazion degli Affari Ecclesiastici Straordinari (entrambi erano consultori dell’Indice almeno dal 1847).

            Si tenga presente che nel 1847 i consultori erano 41, di cui per altro alcuni non risiedevano a Roma e con ogni probabilità non partecipavano alle sedute, Evidentemente si volle risolvere la questione in ogni modo, nonostante la precarietà in cui allora si trovava la curia. I presenti si pronunziarono unanimi per la condanna (ma erano in tutto sei, un cardinale, un vescovo, un consultore e tre su quattro relatori).

            Il giorno seguente si ebbe la seduta definitiva, nel collegio dei Barnabiti, alla presenza dei cardinali Brignole, Lambruschini, Mai, Mattei, Orioli, Pannicelli-Cason, e dei due relatori, Piscopio e Celentano. I cardinali, ascoltati i relatori, aderirono al’unanimità al loro parere e a quello dei due consultori uditi già il giorno prima, il prefetto Brignole chiese se fosse opportuno interpellare Rosmini prima della pubblicazione del decreto di condanna, ma tutti gli Eminentissimi respinsero la proposta. La reazione ufficiale comunicata al papa commentava la decisione: “Già il Rosmini conosceva da tempo che erano censurabili i suddetti due opuscoli, e che invece di sottomettersi al giudizio superiore aveva risposto che gli si facessero conoscere li capi da emendare. Per tal maniera si verrebbe ad istituire una questione con un privato, che porterebbe molto alla lunga, e che sarebbe anche di disdoro per la Congregazione, e che è assolutamente contro la sua prassi. Si verrebbe non solo a perdere molto tempo, con danno grave e certo dei fedeli, ma a far cosa che non porterebbe a bene di sorta, mentre non è possibile il non porre all’Indice le due Operette medesime. Per terzo ancora osservano, che il Rosmini è di tal tempra, che non cederebbe al giudizio della S. Congregazione. Per queste ragioni hanno creduto di escludere l’interpellazione proposta, come non più necessaria”»[13].

APPROVAZIONE DEL PAPA

            L’uditore della nunziatura di Napoli, Pietro Giannelli (dal 1858 al 1860 sarà l’ultimo nunzio di Napoli, per poi trasferirsi a Roma nel febbraio-marzo 1861, dopo essere stato rinchiuso nella fortezza di Gaeta), era stato il segretario delle due sedute del 29 e del 30 maggio 1849; il 6 giugno comunica a Gaeta il decreto (si tratta in realtà dei ‘decreti’ riguardanti anche la condanna delle opere di Gioberti, e il Discorso funebre pei morti di Vienna, del padre Ventura) a Pio IX, che li approva. Egli scrive: «Avendo il sottoscritto rassegnato e letto al S. Padre la relazione, Sua Santità si è degnato di approvare pienamente il sentimento unanime emesso dalla S. Congregazione, circa la necessità di proibire le opere di cui si tratta nella relazione medesima: ha ordinato però Sua Santità che siccome l’Abate Antonio Rosmini-Serbati trovasi a Napoli o nelle sue vicinanze, venga prima interpellato se si sottopone egli alla condanna dei due suoi opuscoli, onde nel caso affermativo, si possa porre nel decreto, che dovrà essere pubblicato, la clausola Auctor laudabiliter se subiecit [= l’autore lodevolmente si è sottomesso]».

            «A questo punto assistiamo ad un palleggiamento dell’ordine di comunicare al Rosmini la notizia della condanna. Mons. Giannelli trasmise al Lambruschini quest’incarico per volontà di Pio IX. Il cardinale chiese di non eseguire da solo questa commissione e di avere un compagno. Intanto il 9 giugno Rosmini era stato ricevuto dal papa, che si guardò bene di fargli parola della condanna, limitandosi a manifestare all’abate la sua ferma volontà di abbandonare nello Stato Pontificio il sistema ‘costituzionale’. In ogni modo, il 25 giugno(lettura incerta), l’Antonelli comunicò al Giannelli di proporre al Lambruschini il Mai o il Brignole come collaboratori, e poi di invitare quello dei due preferito dal Lambruschini. Secondo l’Antonelli, Rosmini era a Capua: si poteva dunque invitarlo a Napoli, procurando che la polizia non gli desse fastidi, e nella capitale notificargli il decreto. Pare che i due porporati tergiversassero. Certo il 20 luglio il card. Brignole scrisse da Casamicciola dichiarandosi pronto ad associarsi al Lambruschini e al Mai. Il 25 però il Vicario Generale di Caserta Giuseppe Giaquinta avvisò che Rosmini aveva lasciato la città per Roma. Il Brignole scrisse allora il 28 al Maestro del S. Palazzo, incaricandolo di rintracciare Rosmini e di chiedergli l’accettazione del decreto. Per sicurezza, alla lettera al Maestro del S. Palazzo, il domenicano padre Buttaoni, erano unite altre due missive, al nunzio a Parigi e a quello di Torino, con lo stesso scopo. I due dispacci dovevano però essere inoltrati solo se Rosmini avesse lasciato Roma. Ancora una volta si ripeté quanto era accaduto a Napoli: l’incaricato scaricò su altri la commissione. La notizia venne così trasmessa dal “Pro-Maestro del S. Palazzo”, padre Boeri, che era anche bibliotecario della Casanatense.

SOTTOMISSIONE DI ROSMINI

            Il 15 agosto Rosmini ricevette la notizia e consegnò immediatamente al latore la sua sottomissione incondizionata; “Albano, 15 agosto 1849: Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente e in ogni miglior modo possibile. Domanderei solamente a S. Santità la grazia, che non essendo state le due operette da me pubblicate con mio nome, il quale fu aggiunto poi dai librai che ne fecero altre edizioni per ispeculazioni di guadagno, ella S.S. volesse ordinare che nel decreto di proibizione venissero indicate col solo titolo senza il nome: uniformandomi del resto anche su ciò in tutto e per tutto a qualunque sua sempre ossequiata determinazione”. La domanda non venne accolta. Il decreto, affisso il 30 agosto alle porte delle basiliche e dei palazzi apostolici, portava le parole: “Di Antonio Rosmini-Serbati. Decr. 30 Maj 1849. Auctor laudabiliter se subiecit”»[14].

            Rosmini tentava di impedire la ristampa e la diffusione delle due opere, e non nascondeva il dispiacere per gli attacchi alla Congregazione dell’Indice usciti in alcuni giornali, ma restava convinto che «il papa non era stato libero nella decisione, “che la conferma del decreto fu ottenuta oretiziamente e surrettiziamente o per umana e diplomatica pressione”, che la condanna poteva essere stata causata da motivi prudenziali “ perché non rimanessero offesi alcuni governi tenaci delle nomine vescovili”, e il conforto per l’assicurazione avuta “da più persone di merito” che “niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolare censura teologica»[15].

LE POLEMICHE NON SI PLACANO

            Nel 1850, sotto Pio IX, sempre anonimo, esce un opuscolo, le Postille, che si scoprirà essere opera del gesuita Antonio Ballerini. Si trattava di un elegante volumetto di 48 pagine, contenente ben 327 accuse di eresia contro Rosmini. In esso sono presenti non solo attacchi al pensiero rosminiano, ma anche offensive invettive alla persona del Roveretano, accusato di essere ignorante, proteiforme, cervello stravolto, ipocrita, caparbio, volpe giansenistica, ingannatore del pubblico, traditore della Chiesa, sino ad affermare che alla sua “malizia umana ed anche alla diabolica sarà difficile andar più oltre”. Il Ballerini pubblicava altri due grossi volumi di lettere familiari [‘Principi della Scuola Rosminiana esposti in Lettere famigliari da un Prete Bolognese, Arzione, Milano, 1850’] dove si fingeva che fossero scritte da un Prete Bolognese il quale esaminava i principi della Scuola Rosminiana in cui apparivano la Nominate Postille. Rosmini viene accusato di perfidia, di scelleratezza, di ribalderia, oltre ad essere chiamato “ignorante, proteiforme, cervello stravolto, ipocrita, caparbio, volpe giansenistica, ingannatore del pubblico, traditore della Chiesa”; concludendo che “alla malizia umana ed anche alla diabolica sarà difficile andar più oltre[16].

            Rosmini, di fronte a questi attacchi, tace, limitandosi a qualche commento e sfogo con gli amici più cari, così da Stresa, scrive al professor don Pietro Corte, a Torino, il 1 gennaio 1851: “I padri della compagnia [di Gesù] mi assalgono pur troppo da tutte le parti con una violenza e con una cecità deplorabile. Fra le orribili cose che poco fa hanno stampato contro di me, ci è un’opera intitolata: Principi della scuola rosminiana in due volumi: se Le riesce di averla, e credo che si venda in Novara, Ella la legga e poi mi dica, se si può dare nulla di più feroce e di più insensato. Se nostro Signore non mi avesse insegnato la mansuetudine, Le assicuro che anch’io saprei metter fuori le unghie; ma no; in quella vece confido che il Signore stesso a suo tempo mi difenderà”[17].

            «Il S. Padre con lettera del 13 marzo 1851 diretta da Mgr. Santucci al Generale dei Gesuiti ed al Rosmini, rinnovò il precetto di silenzio ad ambe le parti, già emanato da Gregorio XVI, e, per togliere ogni ansa a questa campagna di diffamazione, annunziava in pari tempo che la Santa Sede si proponeva di prendere nel più maturo esame le controverse opinioni. Fatto pertanto redigere un accurato elenco di tutte le opere sin allora pubblicate dal rosmini (ottantadue, senza contare quelle annotate da lui e gli articoli giornalistici), deputò sei nuovi esaminatori per studiarle tutte attentamente, senza comunicare fra loro, per fargliene poi scrupolosa relazione. Per non lasciare infine nulla di intentato, ed assicurare tutti gli animi onesti della maturità e rigorosa imparzialità di questo esame, deputo segretissimamente altri due solo a lui noti, allo stesso ufficio. I pareri di questi otto consultori, dopo tre anni d’intenso studi, furono concordemente favorevoli al Rosmini, meno uno. Allora il Pontefice, per eccesso di prudenza, fece rivedere questi pareri ad altri sette: e infine radunati tutti in una Congregazione preparatoria presieduta dal Cardinale Girolamo d’Andrea, prefetto dell’Indice, il giorno 26 aprile 1854, i giudici consultori (meno uno che si astenne dal votare) furono unanimi nel riprovare le accuse mosse contro le opere del Rosmini, nel dichiararle tutte immuni da qualunque censura. […] Dopo questa preliminare adunanza, fu indetta l’adunanza generale della congregazione dell’Indice, il 3 luglio 1854, alla quale intervennero non solo i Consultori, ma anche otto dei Cardinali dell’Indice, e Pio IX medesimo, che con raro esempio volle presiederla. La sentenza [conosciuta come Dimittantur], dopo quattr’anni d’esame minuzioso, e rigoroso, fu che le opere del Rosmini, prosciolte d’ogni censura, dovessero esser licenziate liberamente alla lettura dei fedeli (dimittenda esse); da quest’esame non doversi ritenere detratto alcunché alla fama del Rosmini e del suo Istituto, né ai suoi meriti singolari verso la Chiesa; infine esser proibito per l’avvenire di ripetere le accuse fatte o muoverne delle nuove sotto qualsiasi pretesto; ed essere imposto per la terza volta silenzio ad ambedue le parti. Uno dei Consultori presenti (Mgr. Vincenzo Tizzoni, poi Arcivescovo di Nisbi e Patriarca d’Antiochia) riferì pure che in fine della seduta Pio IX esclamò: “Sia lodato Iddio, che manda di quando in quando di questi uomini pel bene della sua Chiesa!”. Le Postille e le Lettere del Prete Bolognese si salvarono dalla condanna chiesta dalla maggioranza dei Consultori perché nell’animo del Pontefice al sentimento della giustizia si unì a temperarlo il sentimento della prudenza verso i potenti avversari»[18].

            Le polemiche sembrarono tacere, tranne qualche piccola presenza del gesuita P. Liberatore, il quale nei suoi Elementi di filosofia, e Trattato della conoscenza intellettuale, poneva Rosmini tra quei filosofi moderni che digiuni di scienza sacra ed eterodossi guidavano la gioventù italiana verso la miscredenza. Inoltre componeva e faceva recitare nei vari collegi tenuti dalla Compagnia di Gesù delle ‘commedie filosofiche’ dove metteva in ridicolo Rosmini e le sue dottrine. Dopo circa vent’anni, tuttavia, ritornarono allo scoperto, preoccupati dal fatto che le teorie rosminiane trovavano spazio in alcuni testi di teologia per i seminari diocesani[19].

INTERPRETAZIONI DEL DIMITTANTUR

            «La formula Dimittantur pronunciata sulle opere esaminate dalla Congregazione dell’Indice ha il suo significato stabilito dalla costituzione Sollicita ac provvida del Pontefice Benedetto XIV che va innanzi all’indice dei libri proibiti e che in questa materia è fondamentale. Secondo questo documento pontificio la S. Congregazione sopra qualsiasi libro a lei deferito dovrà in prima portare di esso un retto giudizio, e il giudizio poi da proferire dovrà stare in uno di questi tre termini: o proibizione, o emenda, o dimissione, secondo il merito: eiusque proscriptionem, emendationem aut dimissionem pro merito decernere (Const. Sollic. Ac prov., §. 15. I). Il primo si fa colla formula prohibeatur, il secondo con la formula prohibeatur donc corrigatur, il terzo finalmente con la formula dimittatur »[20]. Se le opere di Rosmini erano state ‘dimesse’ e consentite alla lettura dei credenti, significava che in esse i censori non avevano trovato nulla che minacciasse l’ortodossia della fede dei fedeli. Sebbene fosse ancora in vigore il silenzio richiesto da Pio IX e il divieto di riproporre vecchie o nuove accuse contro Rosmini, la Civiltà Cattolica, nell’ottobre del 1875 mette in guardia i vescovi affinché non consentano che la dottrina rosminiana venga insegnata nei seminari dato che le teorie del Roveretano, oltre ad essere agli antipodi dell’insegnamento filosofico di S. Tommaso, è gravemente sospetta di ‘panteismo’. In gennaio del 1876, la medesima rivista, al fine di giustificare il proprio precedente intervento, offre una curiosa interpretazione del Dimittantur, dichiarando che: “La frase Dimittantur (si rilascino) nell’uso della Sacra Congregazione non significa altro, se non che ella cessa da ulteriore disanima, e le opere recate al suo tribunale si rimettano nello stato in cui erano prima, senza profferire sopra di esse né assoluzione né condanna”. Il prof. Buroni ricorda come, secondo la Bolla Sollicita ac provvida la formula Dimittantur “non significa un’approvazione positiva, perché la Chiesa non approva mai positivamente le opere e dottrine di alcuno, per non farle sue, e non sembrare quindi di escludere le altre; ma significa anche un giudizio positivo di liceità ed innocuità. Il quale giudizio positivo significa due cose: 1° un’assoluzione intiera di quelle opere da tutte le accuse o postille che contra di quelle erano state deferite alla S. Sede; 2° un brevetto, e come dire passaporto, di liceità ed innocuità che le deve rendere rispettabili ed incensurabili ad ogni privato”[21]. Il 16 giugno del 1876, sull’ Osservatore Romano, interviene anche il Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, p. Vincenzo Maria Gatti, il quale non esita ad affermare che “dall’esame lungo e coscienzioso è risultato che le accuse mosse alle opere di Rosmini erano false: che in queste nulla fu trovato contro la fede e la morale: che l’edizione e la lettura di esse non sono pericolose ai fedeli. Chi mai può darsi a pensare che il Santo Padre abbia licenziato alla pubblicità opere contenenti dottrine erronee?” e conclude, “Non per questo si vuole affermare che sia illecito dissentire dal sistema filosofico di Rosmini, o dal modo con cui egli tenta di spiegare alcune verità, ed anche il farne nelle scuole la confutazione; ma dal momento che non si condivide il suo pensiero nel modo di spiegare alcune verità, non è lecito concludere che egli abbia negato le stesse verità; né è lecito infliggere censura teologica alle dottrine sostenute dal medesimo nelle opere dalla Sacra congregazione dell’Indice esaminate e dimesse , e contro cui il Santo Padre intese impedire che si muovessero in avvenire nuove accuse”[22].

LA CONDANNA

            Pio IX muore nel febbraio del 1878 e gli subentra Gioacchino Pecci, con il nome di Leone XIII. Il nuovo Pontefice non nasconde la propria preferenza per i gesuiti (suo fratello Giuseppe, “scolastico fossilizzato e antirosminiano arrabbiatissimo”, era religioso nella Compagnia di Gesù, al quale il Papa inviava coloro che chiedevano chiarimenti in filosofia), e la propria avversità al pensiero rosminiano. Non a caso, David Norsa, un pubblicista di Firenze, alla notizia della elezione di Leone XIII, affermava apertamente in pubblico: “Questi è il Papa che condannerà Rosmini”. Uno dei primi atti del nuovo Pontefice fu l’Enciclica Æterni Patris pubblicata il 4 agosto 1879 per instaurare nelle scuole cattoliche il culto di S. Tommaso e la sua aurea sapienza. Ripresero anche i tentativi per neutralizzare l’autorità del Dimittantur. Vennero avanzati alla Sacra Congregazione due quesiti: “I° Se i libri denunziati alla S. congregazione e da essa dimessi, debbano ritenersi immuni da ogni errore contro la fede e i costumi. 2° E, nel caso negativo, se i libri dimessi, ossia non proibiti dalla S. C. dell’Indice, possano impugnarsi così filosoficamente che teologicamente senza incorrere la nota di temerità”. Il 5 dicembre 1881, la Congregazione dell’Indice rispondeva negativamente al primo dubbio, e affermativamente al secondo. Tre giorni dopo esce a Roma un grosso volume del Gesuita p. Giovanni Maria Cornoldi dal titolo Il Rosminianesimo sintesi dell’Ontologismo e del Panteismo (Roma, Befani, 1881), dove Rosmini viene accusato di aver tolto, con il suo ontologismo, ogni distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale, e con il suo panteismo di aver eliminato ogni distinzione tra Dio e il mondo, di avere soppresso la creazione, e aver professato un dichiarato esplicito ateismo[23].

            Il Morante considera pari a un diluvio le reazioni al libro del Cornoldi: «E da quel giorno fu una tregenda, un furore, un deliro di giornali, periodici, volumi, atti di accademie, conferenze, discorsi, persino prediche contro il Rosmini, sul quale si rovesciarono le imputazioni più pazze, le leggende più inverosimili, le ingiurie, le calunnie, fino a quella del gesuita Soriani che dando gli esercizi al clero di Siena dipinse dal pergamo la vita del Rosmini come indegna del sacerdozio e la sua morte come quella di un peccatore impenitente e disperato. A questo torrente di acque amare aggiunsero il loro contributo (e lo diciamo con sincero rammarico) anche persone altolocate nella gerarchia ecclesiastica, vescovi che le opinioni privare del Papa bandivano come oracoli di Dio ed i suoi quaderni di scuola come Sacra Scrittura, cardinali che applaudivano a tutte le intemperanze dei gesuiti contro il Rosmini, sino a colui che ripeteva a mo’ di ritornello le parole della Civiltà Cattolica riassumenti i capi d’accusa: “La dottrina del Rosmini è panteismo in filosofia, giansenismo in teologia, liberalismo in politica”»[24].

            Ma le fasi successive riservano maggior dolore: «Intensificatasi la lotta sopra un terreno in cui i Gesuiti erano ormai tutto ed i Rosminiani nulla, specialmente dopo il Breve papale del 1886 che innalzava quelli agli astri, il fulmine scoppiò alfine, e in data del 7 marzo 1888 con un’accompagnatoria del Cardinale Monaco la Valletta segretario del S. Ufficio venne promulgato il decreto già pronunciato il 14 dicembre 1887, con cui la S[acra] R[omana] U[niversale] Inquisizione riprova, condanna, proscrive una lista di quaranta proposizioni ricavate dalle opere di A. Rosmini, coll’avvertenza che a nessuno sia lecito di questo inferire che le altre dottrine dello stesso Autore siano approvate in alcuna maniera. Il decreto prende le mosse dalle opere postume venute in luce dopo la morte di A. Rosmini (poiché comincia appunto con questa frase fu detto il decreto Post obitum) e osserva che queste opere svolgono più ampiamente parecchi capi di dottrina di cui nelle opere anteriori non erano che i germi, e però attirarono studi più accurati da parte dei dotti nelle filosofiche e teologiche discipline e dei sacri Reggitori della Chiesa; i quali estrassero da quegli scritti  non poche proposizioni che non parevano consone alla cattolica verità e le sottomisero al supremo giudizio della S. Sede. Tale giudizio veniva ora pronunciato dall’Inquisizione e approvato da Leone XIII.

            Di questo decreto spedito ai vescovi colla firma del notaio Giuseppe Mancini, ebbe i primi onori della pubblicazione l’Osservatore Cattolico di Milano con suo immenso giubilo, poi seguì l’altra stampa, gli opuscoli, le pastorali dei vescovi, magnificanti l’irreformabile  decreto e l’oracolo infallibile, ecc., sicché fu strombazzato in tutto il mondo. E avendo molti Rosminiani, come si suole nello stupore del primo momento, dichiarato sui giornali che non credevano all’autenticità di quel decreto, perché contenente errori di grammatica e mancante di alcune formalità, il Sommo Pontefice Leone XIII diresse l’anno seguente una lettera all’Arcivescovo di Milano in data 1 giugno 1889, in cui, ricordato che della S.R.U. Inquisizione è Prefetto lo stesso Sommo Pontefice, dichiarava pubblicamente d’aver avuto piena conoscenza di esso decreto e d’avergli dato piena approvazione»[25].

LA QUESTIONE ROMANA

            «”Noi abbiamo bisogno di una rivoluzione fatta a nome di tutti i culti contro il culto cattolico” On, Andreotti [Atti Ufficiali della Camera, n. 300, tornata 3 luglio 1867[26].

            «Era chiaro che ‘blocco nemico’ da abbattere e annettere erano i due grandi secolari Stati del Centro-Sud, ‘reazionari e retrivi’ per antonomasia, lo Stato Pontificio e il Regno borbonico delle Due Sicilie: Trono e Altare, insomma; nel secondo, il nemico continuava ad essere sempre la Chiesa cattolica: infatti, essa era il vero collante di 20 milioni di italiani che da ormai quindici secoli non erano politicamente uniti, che parlavano dialetti fra loro incomprensibili, con monete e sistemi economico-sociali differenti, usi e costumi simili ma non uguali. Solo la religione cattolica li univa veramente tutti, dalle Alpi alle isole mediterranee, dai sudditi assurgici a quelli sabaudi o borbonici. Il problema però è che la Chiesa cattolica era, per i fautori della Rivoluzione unitarista, esattamente il nemico da abbattere: certamente per tutti dal punto di vista geopolitica, per molti in assoluto, come struttura in sé. Era la Chiesa e la sua religione, infatti, per molti di costoro, a partire dal Buonarroti e dal Mazzini per arrivare, passando per Garibaldi e Cavour, agli uomini protagonisti dell’unificazione e della vita politica e culturale dei decenni successivi, il vero ostacolo alla creazione non solo di un’Italia unitaria, ma di una … “Nuova Italia”, liberal-democratica, laicista, scristianizzata (per alcuni già socialista). Molti dei più noti e meno noti protagonisti di quei giorni proposero diverse alternative – più o meno drastiche – sul “cosa fare” della Chiesa e del Papa, sul come risolvere il “problema” per eccellenza della Rivoluzione Italiana, la celebre “Questione Romana”»[27].

            Una tenace studiosa del Risorgimento, Angela Pellicciari, ripercorre la formazione dell’unità d’Italia, con occhi disincantati, ricordando ciò che ha scritto Ernesto Galla Dalla Loggia: «“L’Italia è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenuti in aperto, feroce contrasto con la propria chiesa nazionale. L’incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativi della nostra identità collettiva come Stato nazionale”. Galli Della Loggia parte dalla constatazione che la “cultura liberaldemocratica”, seppure largamente minoritaria in Italia, ha esercitato e tuttora esercita un monopolio indiscusso rispetto “a tutto ciò che statualmente è italiano, tutto ciò che la nostra storia induce a definire istituzionalmente come italiano (ivi compresa l’industria, la banca, la finanza)”, e collega il saldo possesso di questo monopolio all’occultamento delle modalità con cui è stato realizzato: una vera e propria “guerra civile”, una “autentica” guerra civile “tra cattolici e non cattolici” rimasta inesplorata e che per di più “non poteva che essere rimossa, restare non detta e non dicibile”[28]. Il nostro Risorgimento è davvero frutto di una guerra civile e, se questa è effettivamente esistita, perché è stata rimossa? […] Il processo storico culminato con l’annessione al Regno di Sardegna di tutti i territori della penisola italiana si svolge infatti contestualmente a un’aspra battaglia condotta in Parlamento e nella società civile contro gli ordini religiosi. Come mai? Perché lo Stato sabaudo, costituzionale e liberale, che proprio in quanto tale si contrappone agli altri Stati della penisola e si propone come guida del moto risorgimentale, prima di iniziare un’opera tanto impegnativa e ideologicamente così caratterizzata dedica tanta parte della lotta politica e intere sessioni parlamentari a discutere della soppressione degli ordini religiosi? Quali motivazioni ideologiche, morali, politiche e giuridiche, spiegano il comportamento dei governanti sardi? […] Quelle discussioni in definitiva pongono le basi del nuovo Stato liberale stabilendone l’identità più profonda»[29].

            A conclusione del libro, la Pellicciari riporta le parole del Pontefice, Pio IX, il quale, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, il 18 marzo 1861, nella sua allocuzione, afferma: «La guerra condotta al Pontificato romano non ha di mira solo la sottrazione a questa Santa Sede ed al Romano Pontefice del suo legittimo potere temporale, ha di mira infatti anche l’indebolimento, e se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica». E l’autrice conclude: «L’attacco sferrato alla chiesa cattolica dai Savoia e dai liberali durante il Risorgimento è uno degli ultimi e più significativi episodi delle cosiddette “guerre di religione”. Guerre giustificate dall’odio diffuso dalla Riforma contro Roma, scatenate da principi e sovrani protestanti e massoni per sconfiggere l’oscurantismo cattolico e impossessarsi al tempo stesso delle proprietà che la carità dei fedeli ha nel corso dei secoli regalato alla Chiesa di Roma».[30] Nella postfazione, Franco Cardini tiene a evidenziare che «fra 1848 e 1829 si verificò nel nostro Paese qualcosa di ben più grave che non una sequenza di espropri di beni e di atti limitatori della libertà religiosa (ma anche civica) del clero e dei fedeli. Quel che in realtà accadde, fu un tentativo […] di tagliare le forti e profonde radici culturali della nazione italiana, solidamente accorate alla Chiesa e alla tradizione cattolica»[31]. Sulla stessa linea si pone anche Massimo Viglione, che nella Prefazione introduce le sue ricerche sul Risorgimento con queste osservazioni: «Negli ultimissimi anni, poi, sono fioriti anche studi finalizzati a ripresentare il processo risorgimentale vero e proprio sotto l’aspetto specifico della guerra alla Chiesa condotta sotto la veste eroica dell’unificazione nazionale […]. Ma dagli anni Ottanta, anche storici –sovente di sicura fama – di area non cattolica o specificamente tale (comunque non “anticattollica”) hanno iniziato a ripresentare il Risorgimento e la storia nazionale del Novecento sotto nuova luce; in modo particolare un aspetto specifico […]: quello della mancata reale unità degli italiani, vale a dire quello del fallimento palese di ciò che fu lo scopo stesso del Risorgimento, la creazione di una nuova identità nazionale per gli italiani. Tutta la storia del XIX secolo è stata rivisitata da tali autori, e, quasi sempre, la conclusione è stata la medesima, sebbene con differenti sfumature: il processo risorgimentale – e con esso le sue dirette conseguenze: fascismo ed antifascismo – hanno fallito nella missione di “fare gli italiani”»[32].

            Dopo il Congresso di Parigi, dove Cavour aveva ottenuto un aiuto verbale dalla Francia e dall’Inghilterra, per un loro intervento contro l’Austria e ottenere l’annessione del Lombardo Veneto al Piemonte, e inoltre la presa di possesso degli Stati Pontifici, facendoli credere malgovernati e vessati; lo stesso Cavour, al suo ritorno a Torino, legge alla Camera un nota verbale indirizzata a Walewski e a Clarendon il 27 marzo. Si trattava di una dichiarazione di guerra contro la Santa Sede. Con questa nota, Cavour scagliava contro il governo pontificio la duplice accusa d’incapacità e di oppressione, parlandone come di un governo clericale, di una teocrazia nella quale il laicato non aveva alcuna partecipazione. Per Cavour “secolarizzazione e Codice napoleonico” erano le riforme da proporre per gli Stati pontifici, mentre le Legazioni di Romagna, occupate dall’esercito austriaco, dovevano essere separate amministrativamente dalla Corte di Roma.

            Una settimana dopo la lettura della Nota nel Parlamento sardo, l’ambasciatore francese a Roma, il conte Alphonse de Rayneval, il 14 marzo 1856, invia al Ministro degli Affare esteri francese, Alessandro Walewski[33], una nota ufficiale sulle reali condizioni degli Stati pontifici. «In risposta all’accusa secondo la quale il governo è nelle mani dei preti e non dei laici, de Rayneval osserva come […] nel 1856, in tutte le diciotto province, ci erano quindici preti che esercitavano funzioni di governo. In Roma la proporzione era maggiore, ma i laici erano sempre in numero ben più rilevante»[34]. La proporzione era di 4.917 laici e 90 ecclesiastici. «Questa tabella confuta in modo evidente l’accusa secondo la quale il governo pontificio fosse esclusivamente ecclesiastico, ossia il governo d’una casta, che escludeva i laici dall’amministrazione. Non si contavano, fra tutti, cento ecclesiastici. “È possibile”, domanda il Rayneval, “credere che la felicità e la tranquillità delle popolazioni siano tanto compromesse dalla presenza di un numero così piccolo di persone?”. Pio IX, prosegue, ha introdotto e mantenuto il principio che, a eccezione del cardinale Segretario di Stato, ogni incarico sia accessibile al laicato. “Sono stati promulgati differenti Codici di procedura civile e penale, come pure un Codice di commercio, tutti basati sul nostro (il francese), arricchiti dall’esperienza. Li ho studiati in modo approfondito”, aggiunge, “e mi sono convinto che sono superiori a ogni critica. Il Code des Hypothéques è stato esaminato da giuristi francesi e citato da essi come modello nel suo genere. Il diritto romano, modificato in certi punti dalla legge canonica, viene ritenuto come il fondamento della legislazione civile”. […] Gli stessi Consigli municipali venivano eletti da tutti gli abitanti del comune, e scelti fra coloro che pagavano una certa aliquota d’imposta, o avevano titoli di studio universitari. Il governo aveva mostrato una singolare clemenza nel 1849. La punizione più severa era stata l’esilio e il numero degli esiliati, nel 1856, era valutato a un centinaio. Il governo aveva, con grave danno economico, fatta propria tutta la cartamoneta del governo repubblicano. Un cittadino romano pagava, in media, 22 franchi di imposte, un francese 45. l’esercito annoverava 12.000 indigeni e 4.000 Svizzeri. Erano state eseguite molte opere pubbliche, tra cui il prosciugamento delle paludi d’Ostia e Pontine era in via di compimento; ferrovie e telegrafi erano impiantati allargando sempre più il loro ambito, Roma illuminata a gas e il Tevere percorso da battelli a vapore; l’agricoltura incoraggiata. In una parola lo Stato prosperava. Vi era miseria, s’intende, ma in nessun altro Stato italiano c’erano maggiori risorse per alleggerirne il peso[35]. “«Dal canto suo, Pio IX aveva perfettamente capito quale fosse la posta in gioco, tant’è che ancora nel 1929 c’era chi, come Olgiati, poteva scrivere: “La fusione romana non è mai stata una questione politica, un problema di territorio più o meno vasto, una proclamazione di diritti d’un sovrano spodestato in nome del legittimismo; è sempre stata - e fu sempre come tale in modo esplicito dichiarata dalla Santa Sede – una questione religiosa»[36].

UN PASSO INDIETRO: INIZIO DELLA RIVOLUZONE ITALIANA

            «Con il 1796 iniziò qualcosa di fondamentale importanza, un evento che ha mutato per sempre la storia e il modo di pensare e vivere degli italiani. Iniziò la “Rivoluzione Italiana”. Nel 1796 un uragano storico-politico-militare (ed anche soprattutto religioso) si abbattè sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé la più grave delle eredità: la divisione e l’odio ideologico. […] Le armate francesi, che instaurarono il giacobinismo in Italia, non erano certo state chiamate e volute dagli italiani, come i fatti successivi alla loro entrata nella Penisola dimostreranno inconfutabilmente; esse erano precedute dalla tetra fama delle gesta giacobine: il Terrore, la dittatura, la guerra civile, le stragi, la Costituzione civile del clero, la persecuzione alla Chiesa e alle chiese, il regicidio, ecc. Furono ben accolte solo da sparuti gruppi di repubblicani, che puntualmente venivano messi a capo – a vario titolo – delle neonate Repubbliche che soppiantavano i secolari legittimi Governi. Oltre a ciò, i francesi, ben coadiuvati dai giacobini, [ p. 88 ] non si limitarono a conquistare, a sovvertire l’antica società, a depredare tutto a tutti (dagli ospedali ai monti di pietà, dalle Casse dello Stato alle chiese, dai patrimoni personali dei ricchi a quel poco che potevano trovare nelle case de ipoveri; per non parlare dei musei …); andarono ben oltre, iniziando, per la prima volta in Italia dai tempi dell’affermazione del cristianesimo, una persecuzione alla religione, ai luoghi di culto ed alle persone che non conoscevano precedenti»[37].

                                                                                                          padre Mario Pangallo



[1] Robertino Ghiringhelli, L’idea di rivoluzione in Rosmini e Manzoni, nel vol. misc. Le insorgenze popolari nell’Italia napoleonica. Crisi dell’antico regime e alternative di costruzione del nuovo ordine sociale, Ed. Ares, Milano 2001, 411-413.

[2] O.c., 413-414.

[3] O.c., 415.

[4] O.c., 415-417.

[5] Giacomo Martina, La condanna all’Indice delle «Cinque piaghe» e della «Costituzione secondo la giustizia sociale», nel vol. misc. Il ‘gran disegno’ di Rosmini. origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di Massimo Marcocchi e Fulvio De Giorgi, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 147-148.

[6] Francesco Traniello, Le «Cinque piaghe» e le utopie del ’48, nel vol. misc. Il ‘gran disegno’ di Rosmini. origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di Massimo Marcocchi e Fulvio De Giorgi, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 134-135.

[7] O.c., 136-137.

[8] O.c., 145-146.

[9] Cf. Giuseppe Morando, Esame critico delle XL proposizioni rosminiane condannate dalla S. R. U. Inquisizione, Tip. Editrice L. F. Cogliati, Milano 1905, VII-IX.

[10] Giacomo Martina, La condanna all’Indice delle «Cinque piaghe» e della «Costituzione secondo la giustizia sociale», nel vol. misc. Il ‘gran disegno’ di Rosmini. origine, fortuna e profezia delle «Cinque piaghe della Santa Chiesa», a cura di Massimo Marcocchi e Fulvio De Giorgi, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 149-152.

[11] O.c., 153-154.

[12] O.c., 155-158.

[13] O.c., 162-163. Bisogna notare che solo tre anni dopo, la richiesta di un autore incriminato di essere ascoltato dalla congregazione venne accolta: mons. Jean Baptiste Bouvier, vescovo di Le Mans, per il suo manuale di Teologia, Institutiones Theologicae, venne a Roma nel 1852-1853, dove ebbe lunghi colloqui con mons. Tizzoni e con il Gesuita Rubillon, salvandosi così dalla condanna.

[14] O.c., 163-164.

[15] O.c., 165.

[16] Cf. Morando, Esame critico delle XL proposizioni rosminiane condannate dalla S. R. U. Inquisizione, XI. XIII.

[17] Epistolario completo di Antonio Rosmini-Serbati prete roveretano, XI, Tipografia G. Pane, Casale Monferrato 1893, lett. 6718, 165.

[18] Morando, Esame critico delle XL proposizioni rosminiane condannate dalla S. R. U. Inquisizione, XV-XVII.

[19] O.c., XVIII-XIX.

[20] O.c., XIX-XX.

[21] O.c., XXII.

[22] La lettera completa inviata all’Osservatore Romano si può trovare in O.c., 912-913.

[23] Cf. Morando, Esame critico delle XL proposizioni rosminiane condannate dalla S. R. U. Inquisizione, XXIII-XXXI.

[24] O.c., XXXI-XXXII.

[25] O.c., XXXIII-XXXIV.

[26] Cf. Massimo Viglione, “Libera Chiesa in libero Stato”?. Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale. Ed. Città Nuova, Roma 2005, 15.

[27] O.c., 33.

[28] I passi tra virgolette sono reperibili nel vol. Ernesto Galli Della Loggia, Liberali, che non hanno saputo dirsi cristiani, Ed. Il Mulino, Bologna 1993, 855-866.

[29] Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere.Liberali & massoni contro la Chiesa, Ed. Ares, Milano 1998, 9-11.

[30] O.c., 202.

[31] O.c., 220.

[32] Massimo Viglione, “Libera Chiesa in libero Stato”? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Ed. Città Nuova, Roma 2005, 8-10.

[33] Alessandro Floriano Giuseppe Colonna-Walewski - conte (principe dal 1866) (Walewice, 1810Strasburgo, 1868) è stato un politico francese. Figlio naturale di Napoleone Bonaparte e di Maria Walewski, prese parte all'insurrezione polacca del 1830. Fondò il giornale Le Messager. Fu ambasciatore a Firenze nel 1849, a Napoli nel 1850, a Madrid nel 1851 e a Londra nel 1851. Fu ministro degli affari esteri dal 7 maggio 1855 al 4 gennaio 1860. Oppositore di Napoleone III sulla questione italiana, diede le dimissioni ma ottenne il ministero delle Belle Arti. Venne creato principe dal cugino imperatore nel 1866. Morì all'età di 58 anni per un colpo apoplettico mentre si trovava a Strasburgo, e fu seppellito a Parigi nel cimitero del Père Lachaise.

[34] Patrick Keyes O’Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, Ed. Ares, Milano 2000, 264-265.

[35] A questo riguardo, O’Clery riporta in nota le seguente osservazione: «Quando diverse calamità naturali colpirono l’Italia nell’estate del 1879, fu proposto alla Camera dei deputati che il governo contribuisse al soccorso delle popolazioni colpite. Benedetto Cairoli rispose che non c’erano precedenti. Il deputato Cavallotti replicò: “Ahimé!, precedenti ce ne sono anche troppi, ma bisogna tornare indietro nel tempo per trovarli, ed è triste per noi doverli ricercare nelle memorie dei passati governi. Dopo l’eruzione del Vesuvio del 1822 il Borbone concesse l’esonero dalle tasse ai danneggiati dall’eruzione. L’attuale governo, ben lontano dal seguire questo esempio, le tasse, le aumenta”. Cavallotti continuò: “Nell’inondazione del 1842 cosa fece il governo pontificio per aiutare i disagiati di Bondeno? Condonò il pagamento delle imposte per un anno intero […], sopportò tutte le spese, mantenne le popolazioni povere per tutto il tempo che dovettero rimanere lontane dalle loro terre; rimborsò tutte le spese occorse per ricostruire le case distrutte o danneggiate; condonò tutti i dazi sul ferro e sul legname importati per la ricostruzione; ricostruì a sue spese tutte le chiese – ed è comprensibile – così come molti pubblici edifici e, sempre a sue spese, molte abitazioni di privati, e quasi tutte quelle dei poveri; infine soppresse tutti gli oneri di urbanizzazione secondaria, esentando i comuni e le province». [O’Clery, La Rivoluzione italiana. 271, nota 1].

[36] Rino Camilleri, L’ultima difesa del Papa Re. Elogio del Sillabo di Pio IX, Ed. Piemme, Casale Monferrato AL 2001, p.49.

[37] Viglione, “Libera Chiesa in libero Stato”?, 87-88.