Mario Pangallo I.C.

 

 

 

 

 

VIRTÙ e MORALE

 

nel

 

LIBERO PENSIERO

di

ANTONIO ROSMINI

 

 

 

 

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INDICE

 

INDICE                                                                    2

 

INTRODUZIONE                                                   4

 

COSA È VIRTÙ                                                     9

a) Intelligenza come fondamento della virtù         9

b) Volontà e verità                                                   12

c) Educazione ascetica                                             14

d) La ‘vita di perfezione’                                        16

 

COSA È MORALITÀ                                              19

a) Distorsione della morale                                      19

b) L’essenza della moralità                                     21

c) La ‘legge morale’                                                 23

d) Moralità oggettiva e soggettiva                          25

e) Oggettività e perfezione                                      28

 

VIRTÚ E MORALITÁ                                            31

a) Amore alla filosofia                                             31

b) Progresso civile, se morale                                  35

c) Formazione e moralità                                        37

d) ‘Stima’ e ‘Atto morale’                                       39

 

LA SORGENTE DELLA MORALITÁ                 43

a) L’essenza del Cristianesimo                                43

b) La libertà                                                             46

c) La scelta                                                               49

d) Il fine assoluto                                                     52

 

DAL NATURALE AL SOPRANNATURALE      55

a) Le potenzialità personali                                     55

b) Bene comune personale                                      58

c) Il ‘bene morale soprannaturale’                         60

 

IMPERATIVO ETICO E SOCIETÁ                     64

a) Cosa è Etica                                                         64

b) Etica come scienza                                               67

b) Riconoscere il ‘bene morale’                              69

 

LE VIRTÚ TEOLOGALI                                       73

a) Fede                                                                      73

b) Speranza                                                              81

c) Carità                                                                   86

 

LE VIRTÚ CARDINALI                                        94

a) Prudenza                                                              94

b) Giustizia                                                               99

c) Fortezza                                                                108

d) Temperanza                                                        115

 

CONCLUSIONE                                                     119

 

 

 

 


INTRODUZIONE

 

 

 

            Anche in un’epoca di incalzanti innovazioni che travolgono non solo le tecnologie produttive e comunicative, ma anche i criteri di pensiero e le relazioni umane, è possibile osservare che il mondo presente, sebbene sembri talvolta negare gratitudine verso coloro che ci hanno preceduto, deve larga parte del suo progresso alle positive conquiste del passato.

            Peraltro, mentre è innegata l’ascendenza autorevole riconosciuta  alle scoperte scientifiche nello scibile umano, ancorché il loro retaggio sia in qualche caso ormai secolare, altrettanto non pare riconosciuto alle conquiste del pensiero umanistico e filosofico che non godrebbero più della stessa autorità del passato, anzi, in tale ambito del sapere osserviamo una svolta radicale.

            L’antropologia abbandona la ricerca dell’essenza sostanziale dell’essere umano, preferendo le indagini scientifiche, fino a ridurre la persona umana alla sua matrice empirica e meccanicistica. La filosofia, a sua volta, si adegua al soggettivismo Kantiano e al materialismo dialettico, abolendo la valenza metafisica del pensiero e riducendo la ricerca del vero alla dinamica individualista dove il termine verità verrebbe irriso quando non coincidesse col pensiero maggioritario sostenuto da un potere mediatico divenuto molto più capace di condizionare l’educazione e i tradizionali poteri democratici, pur con la recente eccezione dalla compulsione individualistica sulle reti

            L’uomo d’oggi preferisce cercare in modo particolare l’efficienza e l’efficacia dei mezzi disponibili per la soddisfazione dei suoi desideri, assunti a diritti, mezzi che per analogia col progresso tecnologico si presumono ampliabili senza limiti, mentre il concetto di virtù è inteso come retaggio di un passato superstizioso e feticistico.

            L’essere umano più di ieri si ritiene in grado di modellare l’universo a proprio piacimento senza accettare condizioni da leggi naturali che non siano quelle scientifiche di causa-effetto misurabile, anzi, la stessa natura sarebbe piegabile alle esigenze degli umani non solo per il bene comune (vedi la medicina in contrasto alla malattia o la generazione di nuove risorse per la qualità della vita), ma sarebbe manipolabile anche per per gli sfizi individuali (vedi generazione artificiale di cuccioli d’uomo da destinare a vecchi o a coppie omosessuali).

            Proviamo a chiederci se davvero la persona umana sia in grado di esaudire la totalità dei propri desideri terreni semplicemente sfruttando la tecnologia. Sappiamo che non pochi risponderebbero sì, e considererebbero ingenuità infantile o senile la sete di finalità, di senso globale che trascendesse il “come funziona” in fisica-chimica, in psichiatria, in sociologia, in economia.

Eppure anche adultità e intelligenze tutt’altro che ingenue confermano persistere questo anelito di infinito che, lungi dall’essere spento dalla potenza mediatica irridente, non sarebbe affatto in contrasto con la suddetta componente scientifica della tecnologia, ma semplicemente osserva essere non illusione ma realtà il fatto che l’uomo non sia riducibile a tecnologia, che la sua l’intelligenza, aperta all’infinito, non sia riducibile ai beni finiti, mentre si esalta e si completa riconoscendo anche esperienzialmente una risposta esaustiva, di profilo eterno, infinito, a tutte le sue aspirazioni. Trattasi di una sete di infinito che conserva la visione antropologica della stretta unità nell’uomo della parte intellettivo-spirituale con la realtà fisico-corporale e nulla neglige dei successi della cosidetta “intelligenza artificiale”, solo che non gli basta conoscere soltanto quantitativamente le differenti realtà del mondo, e non rintuzza come fuorviante l’esigenza di “senso” che pretende di cogliere il significato, il valore di ogni entità rientrante nella sua sfera cognitiva.

            Quando la sete di infinito venisse riconosciuta e valorizzata dal pensiero umano, essa troverebbe spazio nella riflessione teoretica che non si limita al misurabile meccanicamente riproducibile, ma nulla rinnega della ragione e della logica-razionale.

Questo passaggio potremmo chiarire, ad esempio, ricordando la constatazione di Maria Adelaide Raschini, quando, recuperando il periodo classico, precisa che «Socrate non si accontenta di esemplificazioni ed elenchi, ricercava il concetto, il principio che gli avrebbe consentito, una volta per tutte, di conoscere che cosa è virtù, che avrebbe potuto applicare a tutte le single realtà, che gli avrebbe permesso di economizzare energie intellettuali. E, se per la raccolta dei dati è sufficiente una intelligenza artificiale, per il coglimento del principio occorre l’intelligenza umana»[1].

            La suddetta sete di infinito ospiterebbe il desiderio di “conoscere che cosa è virtù”, ma l’espressione non suona “politically correct” ai nostri giorni e non solo perché la virtù non avrebbe a che fare con i neo-modelli dell’estetica e della stilistica, ma semplicemente perché il termine è emarginato dagli ambiti notevoli del sapere e, piuttosto, vige l’insegnamento del suo opposto, il cinismo, nell’economia, nella politica (che al massimo parla di valori) e nella contrattazione ordinaria; il termine virtù è scansato perfino dalla pedagogia ed è uscito dalle aule scolastiche, con l’eccezione, forse, dell’ora di religione.

            Ma è ancora possibile parlare di virtù in una società post-moderna dove l’esigenza più impellente non risiede nella ricerca di una morale oggettiva [ricerca logica della verità], ma nella spasmodica richiesta di beni individuali, temporali e transitori? Si può ancora parlare di virtù a una società che vuole ridurre la persona umana ad una pura esperienza sensoriale, in cui convergono mente e intelligenza come ancelle obbedienti al sistema neurologico centrale, riducendo la coscienza ad una semplice sinapsi cervicale? E se tutto è riducibile ad un contesto empirico, e quindi a semplici leggi chimico-fisiche, dove può trovare spazio la libertà umana, fonte di ogni dignità e grandezza, di ogni ricchezza spirituale e religiosa, di ogni maestà estetica ed artistica, di ogni decisione politica e storica? Un simile quesito presupporrebbe una richiesta di chiarimento, che ci riporta all’indagine socratica, lasciando aperto l’interrogativo: «Cosa è virtù?».

            Il presente libro desidera indagare la definizione e lo specifico significato del termine “virtù”, all’interno di una precisa demarcazione: quella del pensiero e dell’opera di Antonio Rosmini[2], con ciò in un certo senso perimetrando la trattazione del tema, ma, come il lettore avrà modo di apprezzare, trattasi di un perimetro che non va affatto stretto all’attualità, ad onore della perspicacia e lungimiranza del nostro autore.

            Nell’ottica rosminiana, la virtù non riguarda solo la sfera religiosa, ma fa parte del processo di perfezione morale dove sono coinvolte le potenze più alte della persona, cioè l’intelligenza e la razionalità, la volontà e la libertà, chiamate tutte a riconoscere e ad aderire alla verità. La riflessione filosofica, e l’etica pratica sono così direttamente coinvolte e relazionate per determinare il ‘vero bene umano’ e per renderlo operativo nella libera decisione delle scelte operative. La moralità, quindi, considerata come parte integrante della virtù, è riconosciuta suo necessario ed essenziale fondamento e riferimento.

            Nel Roveretano, la primazia di ogni indagine intellettiva spetta alla riflessione filosofica, l’unica secondo lui  in grado di focalizzare i principi fondativi di ogni altra conoscenza, per portare ad unità le leggi e le normative che stanno alla base di ogni determinata scienza. Peraltro forse anche secondo noi, dovendo ammettere che, se da un lato la riflessione filosofica è stata emarginata dal modernismo, d’altra parte il medesimo pare abbia rinunciato all’intento di unitarietà normativa, e la babele delle incomprensioni tra i popoli, pur supernormati, sta a dimostrare il ben che ne deriva.

            Nell’ambito morale, i fondamenti razionali consentono, di scoprire in che modo il discorso etico divenga propedeutico alla pratica della virtù. Potremmo dire che l’esercizio della virtù intesa come fare il bene, esige nella persona un atteggiamento antecedente di essenziale importanza che consiste nell’essere buona. Fare il bene non sarebbe di per sé meritorio se venisse a mancare l’interiore bontà dell’animo, che desidera riconoscere nella verità il bene supremo, e che vuole aderire sempre e ovunque alla verità conosciuta.

            Nel trattare le virtù teologali e cardinali, ci si consenta quest’altro perimetro, tutt’altro che castigante come vedremo, teniamo presente le formulazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica del 1982. Oltre all’ affinità nell’ordito generale tra lo sviluppo delle virtù in Rosmini e nel Catechismo, è a volte interessante constatare, in alcuni passi, la singolare contiguità di concetti e formulazioni tra le due esposizioni di dottrina.

            Nel titolo viene usato il binomio ‘libero pensiero’: per Rosmini solo un pensiero libero da condizionamenti interiori ed esteriori è in grado di giungere ad una vera e perfetta conoscenza della realtà. Ed il pensiero è libero, per Rosmini, nella misura in cui non è schiavo dell’errore, ma trova nella verità la propria finalità e consistenza. Come dargli torto? Solo un ‘libero pensiero’ consente di poter ragionare senza complessi e con pertinenza di ogni disciplina o contenuto letterario o scientifico, antropologico o sociologico, speculativo o pragmatico.

            Il libro qui offerto al lettore entra direttamente nella definizione e nella considerazione di ‘cosa è virtù’, quali componenti teoretici e pratici la virtù richieda, e come si relazioni alla moralità. Da qui, la domanda di “cosa è moralità” e quindi come la morale trovi fondazione in ambito naturale, giungendo a scoprire che la sua sede definitiva viene a posarsi nella sfera del soprannaturale. Si approfondiscono infine, in maniera specifica, le singole virtù teologali e cardinali, dove interrogativi e riflessioni si intrecciano per offrire un approfondimento che si allontana dai luoghi comuni per addentrarsi in problematiche di singolare novità e attualità.

 

 


COSA È VIRTÙ

 

«Una proprietà nobilissima della virtù osservata da S. Agostino consiste in questo: mentre tutte le altre abitudini si possono usare in bene ed in male; quella della virtù non può mai essere abusata; perché è lei stessa il buon uso di tutte le cose. Essendo dunque ella essenzialmente bene, cesserebbe di essere virtù, se vi si introducesse alcun abuso»[3].

 

 

a) Intelligenza come fondamento della virtù

 

            Il concetto che Antonio Rosmini ha della virtù, si può considerare la sintesi di tutto il suo pensiero filosofico e teologico. La sua indagine lo porta a scoprire un legame indissolubile tra intelligenza-verità-carità-santità, così da affermare, nelle Conferenze Spirituali, che «l’intelligenza si può dire il germe di tutte le virtù evangeliche[4]». Questo stesso legame traspare anche nelle Massime di perfezione[5], dove il credente viene invitato a riflettere su come il cammino ascetico non può essere disgiunto dal retto uso della razionalità. Ed anche le attività quotidiane devono essere continuamente illuminate dalla personale riflessione, così da «disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di intelligenza[6]».

            La persona umana intuisce l’idea dell’essere, che consente la conoscenza di ogni realtà fisica o spirituale, di ogni materia sensibile o di qualunque pensiero astratto. La verità infatti è la perfetta corrispondenza tra l’idea che l’uomo possiede di una determinata realtà e la presenza reale della stessa. Cosa significa questa affermazione, e come trova corrispondenza nell’agire umano?

            Grazie all’idea dell’essere, l’animo umano viene dotato della facoltà intellettiva, che consiste nella capacità di riconoscere l’essere, cioè l’esistenza di ogni ente, di ogni cosa, di ogni realtà con cui il soggetto viene a contatto. L’intelligenza, quindi, sin dal concepimento informa di sé l’anima dell’essere umano e dona all’uomo la potenza di conoscere. Con i cinque sensi la persona è continuamente a contatto con il mondo fisico e ciò che i sensi riescono a cogliere viene decifrato dalla intelligenza umana e viene catalogato entro un’idea specifica. Questa idea è la perfetta corrispondenza di ciò che i sensi hanno percepito. I sensi quindi sono in contatto con la forma reale delle cose, mentre l’intelligenza coglie la loro forma ideale.

In questo modo è possibile giungere a conoscere, l’essere, quindi la verità di ogni ente o realtà esistente.

L’idea dell’essere non dà solo origine all’intelligenza umana, ma consente all’uomo, lungo tutto l’arco della sua vita, di cogliere la reale identità di ogni essere esistente sia nella sua materialità, come nella sua pensabilità, e questo ovviamente consente di riconoscere la bontà degli oggetti in questione.

            L’importanza di questa riflessione sull’idea dell’essere si comprende se si riflette su questo fatto: solo se l’uomo conosce ciò che un oggetto realmente è e quanto vale, che diviene in grado di darle il giusto posto nelle sue azioni e nelle sue decisioni. Rosmini chiama l’idea dell’essere anche lume della ragione, perché è come la luce che consente alla ragione umana di ordinare, assemblare, sviluppare e accrescere le varie conoscenze che vengono progressivamente acquisite.

            L’intelligenza riceve direttamente dai sensi il materiale da conoscere e da cui comporre l’idea delle cose. La ragione riceve ed elabora le idee che le vengono somministrate dall’intelligenza. La ragione può abbinare tra loro le idee percepite, può relazionare tra loro le varie nozioni acquisite, può formulare progetti e disegni, può dare fisionomia alle aspirazioni e ai desideri, è in grado di sviluppare programmi e pianificarne i tempi di realizzazione.

            Questo retto uso della ragione si definisce come ordine della verità: le cose infatti hanno un “ordine” nell’universo e quindi anche nella conoscenza umana; esse non sono tutte uguali e non hanno tutte lo stesso valore, sapere quindi il loro grado e la loro posizione nel cosmo consente di non sottostimarle e neppure sopravvalutarle, ma di tenerle nella loro giusta considerazione, dando loro il corretto posto sia nella vita pratica come anche nel confronto e valutazione con le altre cose.

            Va messo, però, in risalto un altro dato di particolare rilevanza: l’intelligenza non è limitata alla conoscenza della struttura dell’universo, dei segreti della natura e della complessità umana, ma, tramite la rivelazione evangelica, viene a conoscere la verità sull’essenza di Dio, sulla comunione con lui e sulla vita eterna come partecipazione all’essere senza limite e tempo.

            Dato poi che l’idea dell’essere permette di conoscere la vera essenza delle cose, il loro valore e la loro importanza essa va considerata anche la prima legge morale, perché «è quella prima idea o nozione con la quale si formano i giudizi morali»[7].

            Con questa premessa possiamo arrivare alla definizione della virtù: «La virtù […] considerata nella sua unità è quella qualità che rende buona la volontà, e quindi che rende buono l’uomo, la persona umana, e si definisce: “Un’assoluta preponderanza della volontà verso la prima ed eterna legge (che tutte le altre comprende) e un universale e costante proposito di operare in conformità e per riverenza della medesima”»[8].

             Da questa affermazione si deduce che l’idea dell’essere – cioè la “prima ed eterna legge” – deve essere considerata anche il principio a cui si deve conformare la volontà umana affinché si possa raggiungere il bene desiderato.

            La virtù quindi trova la sua consistenza nel fatto che la volontà orienta la persona umana a riconoscere e ad aderire a ciò che l’intelligenza le presenta: e poiché l’intelligenza realizza se stessa grazie all’immediata conoscenza della reale identità sia del mondo materiale, che della esperienza sentimentale e interiore, essa è in grado di formarsi l’idea corrispondente di tutto ciò di cui il sentimento personale riceve percezione.

            In altre parole la virtù consiste nella adesione della volontà all’idea dell’essere, perché in questa idea l’uomo è in grado di conoscere la verità, e aderendo alla verità rispetta e ama l’ordine presente in tutte le varie modalità in cui si presenta a lei l’essere. Nel rispetto dell’essere e del suo ordine consiste il vero bene degli esseri umani.

            La virtù così, tramite l’esercizio della intelligenza, è in grado di poter individuare il bene con la ragione e di amarlo con la volontà.

 

 

b) Volontà e verità

            Il pensiero rosminiano – come si è visto – sottolinea anche il nesso stretto che vi è tra volontà e verità, perché «la volontà viene obbligata dalla verità»[9], infatti, se solo la verità consente di conoscere il vero bene umano, a sua volta è solo la volontà che consente di poter perseguire e conseguire praticamente questo stesso bene.

            Inoltre, dato che l’idea dell’essere non è solo all’origine dell’intelligenza umana, ma è ciò che consente all’uomo di possedere ed esercitare la propria razionalità, ne segue che la virtù richiede l’esercizio della ‘ragione’ per poter conoscere e ri-conoscere la verità, per poter cioè individuare il bene con la ragione e, riconoscendolo come vero bene, amarlo con la volontà.

            Come capire l’ordine dell’essere e quindi come conoscere l’ordine e la graduatoria del bene?

            Poiché Dio è l’essere assoluto, in Lui vi è la naturale presenza del bene, della verità e dell’ordine, pertanto la virtù è presente, reale e attiva se porta l’uomo a porre Dio al primo posto nei propri pensieri e a offrire a Lui la totalità della propria vita, mettendo la volontà a disposizione e a servizio della verità.

            Il bene morale, che corrisponde alla virtù, trova la sua realizzazione e sviluppo solo dove vi è una mente che è in grado di riconoscere la verità, e dove vi è una volontà che con decisione e determinazione mette in atto quel bene conosciuto. Pertanto il bene morale non ha limiti, perché esso si radica in una volontà buona, e la volontà «segue l’intelligenza. Ora l’intelligenza può conoscere sempre dei beni maggiori, fino che egli non giunga al bene completo, sommo, il bene stesso, l’essere stesso, l’assoluto; qui si ferma, perché è l’ultimo, l’infinito; qui dunque solo può fermarsi la volontà»[10].

            In questa relazione con l’infinito – spiega il Roveretano – risiede l’altissima dignità della persona umana, la quale è in grado di unirsi al bene assoluto e divenire «una cosa con lui»[11]. È in questa comunione profonda dove si realizza la felicità a cui ogni natura umana anela, infatti le altre realtà create devono essere considerate solo mezzi, dato che possono contribuire a raggiungere questa finalità, mentre solo «questa beatitudine tiene propriamente la ragione e il concetto di fine»[12].

 

 

c) Educazione ascetica

 

            La virtù si manifesta come costante adesione all’essere, essa è quindi anche continua attività, è una perseverante ricerca per riconoscere il bene e renderlo operativo nelle varie circostanze in cui la persona è chiamata a decidere delle proprie scelte.

            Queste scelte richiedono che si abbia chiaro il ‘fine’ che il soggetto deve raggiungere, ma esigono al contempo anche e soprattutto una adeguata selezione dei mezzi adatti a raggiungere la meta stabilita.

            Per il conseguimento della virtù, quest’ultima operazione prende il nome di Ascetica. In Rosmini essa riceve una chiara definizione: l’Ascetica – scrive il pensatore trentino - è la scienza dei «mezzi con i quali l’individuo può avvicinare ed educare se stesso alla virtù ed alla perfezione»[13].

            Tale scienza si rivela molto appropriata e pertinente nel guidare, sin dai primi passi, le nuove generazioni; infatti è nel campo educativo, dove si richiede che i giusti mezzi siano conosciuti, e che vengano utilizzati in primo luogo dai genitori, e da tutti coloro che operano in campo pedagogico, nel mondo della scuola e nelle varie attività formative in genere.

            Perché l’educazione ottenga il suo fine, vi sono quattro strumenti, che possono essere definiti “caratteri”, e che dovrebbero essere posseduti da tutti coloro che dalla natura – come i genitori – o dalla società – come gli insegnanti e i formatori – sono preposti a guidare la crescita e lo sviluppo dei piccoli e dei giovani.

            Queste qualità devono ‘caratterizzare’ i comportamenti e le modalità di relazione degli adulti verso gli educandi. Agli educatori si richiede «1° Autorità; 2° Coerenza e costanza; 3° Esempio; 4° Sanzione, cioè premio e correzione »[14].

            Nel trattare il secondo punto l’autore tiene a sottolineare il valore dell’impegno come dato essenziale ad una crescita ordinata e regolare. L’educazione, per essere in grado di raggiungere il proprio fine, deve possedere la qualità della “coerenza”, la quale consiste in questo, «cioè tutto ciò che il giovane sente o vede deve ispirargli virtù».

            L’educazione, sebbene abbia il suo fulcro negli ambiti familiari e scolastici, non è però riducibile a pochi educatori. L’ascetica, cioè i mezzi che portano i giovani a conoscere e innamorarsi della virtù non può che essere la scienza che informa tutta la società nella quale vive immersa la gioventù.

            Il controllo sociale, lontano dall’essere un disvalore, promuove la crescita equilibrata delle giovani menti nella misura in cui aiuta il mondo civilizzato a riconoscere e rispettare la dignità di ogni essere umano, e porta i membri della società, con i loro comportamenti e i loro insegnamenti, a muovere il fanciullo e il giovane «all’esecuzione dei suoi doveri, alla pietà, allo studio, all’amore della fatica, alla pratica di tutte le virtù morali»[15].

 

 

 

d) La ‘vita di perfezione’

 

            L’ascetica permette di selezionare i mezzi che conducono alla perfezione. Nelle Massime, Rosmini sottolinea il fatto che tutti sono chiamati alla perfezione e quindi tutti sono tenuti a vivere secondo l’insegnamento del Vangelo che «è legge di perfezione»[16]. Tuttavia, per raggiungere la ‘perfezione di amore’ - aggiunge l’abate roveretano – vi sono tre ‘mezzi’ particolarmente utili, ma che non rientrano nei precetti, e che quindi non sono obbliganti per ogni fedele. Essi sono tuttavia particolarmente validi per rimuovere dai pensieri e dagli affetti tutti gli impedimenti che ostacolano una totale gratuità di amore a Dio e ai fratelli. Questi mezzi sono i tre consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza che consentono ad alcuni discepoli di Gesù Cristo di spogliarsi «delle ricchezze, dei piaceri, e della propria volontà, per essere più liberi» nel dono di sé a Dio, e nell’amare, senza legami terreni, le donne e gli uomini del proprio tempo.

            La vita religiosa, essendo un mezzo, non è il fine, ma la strada che conduce al fine, perché il fine resta sempre la perfezione dell’amore. La vita religiosa rientra quindi nella ‘scienza dei mezzi’, e fa parte del cammino ascetico che educa l’uomo e la donna a ricercare la virtù e a inseguire la perfezione.

            Ma in quale rapporto sta la virtù con la vita religiosa?

            La tradizionale distinzione tra vita attiva e vita contemplativa introduce entro un differente accostamento rispetto alla virtù. Innanzitutto, quale è la differenza tra i due stili di vita?

            Occorre tenere presente che «la vita contemplativa è quella, nella quale l’uomo si occupa, quanto più gli è possibile, in quegli atti interni di virtù che hanno un oggetto interno quale è la verità e Dio; la vita attiva è quella nella quale l’uomo si adopera di conseguire la virtù praticandola maggiormente con atti esteriori, verso gli oggetti pure esteriori, quali sono gli altri uomini»[17]. È chiaro che tra i due generi di vita non vi è una netta e invalicabile separazione, dato che la virtù si può manifestare sia attraverso degli atti interni, come anche nei comportamenti esterni. Questi ultimi, in ogni caso – vale a dire i comportamenti nella vita attiva –, sono sempre atti particolari, legati a beni specifici, caratterizzati da una perseverante e disinteressata carità, ma non hanno come intento la virtù in generale, nella sua totalità. Mediante la mobilità fisica e l’esercizio sensibile del bene al prossimo, il discepolo di Gesù Cristo mette in pratica e realizza singole e determinate virtù umane. La ‘vita attiva’ è quel genere di cammino – l’ascetica – dove maggiormente si evidenzia l’impegno umano nel perseguire il proposito di realizzare la bontà.

            Sotto un altro aspetto devono invece essere considerati gli atti interni – tipici della vita contemplativa –, perché essi sono in grado di estendere il proprio raggio di azione ad un oggetto, non più singolo, ma che presenta caratteristiche di universalità.

            Poiché la virtù nella sua essenza «si estende a tutto l’essere considerato nel suo ordine»[18], gli atti interni, a differenza di quelli esteriori, sono in grado di rivolgersi ad un oggetto universale, e possono così conservare come obiettivo dei propri attivi desideri l’essere in tutta la sua ampiezza e profondità, perciò «in quanto essi hanno di immanenza, in tanto possono costituire virtù»[19]. Immanenza significa che nella propria interiorità, il soggetto ricerca costantemente «la parte migliore»[20], proposta dal Vangelo. Sono cioè atti ‘virtuosi’ nella misura in cui non sono solo pie aspirazioni, ma inducono il soggetto a quelle dinamiche interne dove gli oggetti dei propri pensieri e della propria volontà muovono ad una costante ricerca di lode e comunione con Dio e alla perseverante ricerca della verità.

            Ambedue questi generi di vita – la contemplativa e l’attiva - sono mezzi ascetici, nella misura in cui conservano la «giusta stima dell’ente, considerato nella sua universalità e nel suo ordine»[21]. “Giusta stima” significa che le persone sono interpellate a dare all’essere, cioè ad ogni realtà umana e divina, il retto e giusto posto tanto negli spazi interiori del proprio cuore, quanto nelle scelte attive di operosità, coltivando e conservando la quiete dell’animo, unita alla fiducia in Dio, in se stessi e negli altri. Nella misura in cui le persone che percorrono queste due strade si sforzano di vivere nella costante, ‘immanente’ e quotidiana ricerca della volontà divina, tali mezzi possiedono la necessaria caratteristica di rendere buona la volontà, e quindi di rendere l’uomo ‘buono’, potendo così affermare che in esse si riscontra ciò che «si chiama assolutamente, virtù»[22].

 


COSA È MORALITÀ

 

«L’ordine dell'essere richiede che noi stimiamo ed amiamo Iddio per quello che egli è: l’inizio e il fine di tutte le cose, l'essere stesso, il necessario, l'assoluto: questo è il principio di tutto il sistema morale, come l'essere divino è il principio dell'universo, il perno su cui tutto si mantiene e muove»[23].

 

 

a) Distorsione della morale

            Non si possono avere dubbi sul fatto che «la virtù è una qualità per la quale la volontà e le potenze subordinate vengono disposte ad operare il bene morale»[24].

            Tra la virtù e la morale vi è una stretta relazione e si potrebbe dire che le due realtà vengano a coincidere. Questa corrispondenza appare chiara nelle Cinque piaghe della Santa Chiesa, dove si mette in luce che «un bisogno essenziale all’uomo è la virtù; perché senza la dignità morale, l’uomo è spregevole a se stesso; e chi è spregevole a se stesso non è felice»[25].

            Degno di nota è il giudizio che Rosmini pone sulla evoluzione del pensiero morale. Egli sostiene che, a partire dal periodo della Rivoluzione francese, viene a instaurarsi un intreccio distorto tra virtù e morale. In quell'epoca – ricorda il Roveretano – l'umanità era alla ricerca della morale, ma era nella impossibilità di poterla trovare. La morale, infatti, per sua indole è umile, docile, nascosta. La persona che si immerge nei rumori del mondo non può quindi essere in grado di scoprirla in quanto i suoi occhi spirituali sono incapaci di interiorità. Solo nell’intimo dimora l'elemento morale, mentre l'individuo dal carattere superficiale si distrae e si disperde con facilità nella plebe rumorosa e distratta. Per questa ragione, agli uomini del XVIII secolo, di tutto ciò che compone l'essere umano, era rimasta visibile solo la sensazione, cioè soltanto la parte corporea, l’elemento materiale, la realtà fisica e sensibile. Lo sbocco fu drammatico perché – osserva con sarcasmo il Nostro – «la sensazione per quegli uomini fu pensiero, e fu idea, e fu verità, e fu legge morale, e fu diritto, e fu politica, e fu civiltà, e fu progresso, e fu tutto»[26]. Ma ancora più emblematica fu la distorsione della morale in campo educativo: dato che l'insegnamento doveva uniformarsi a questa nuova normativa, fu così – prosegue Rosmini – che «per formare i giovani ad una morale eccellente, s’insegnò loro, che dovessero seguire il piacere, loro inculcando, che nella sequela del piacere tutti i loro doveri e le virtù tutte si contenevano, perché il piacere, il solo piacere era il principio della vera morale»[27]. La conseguenza non è difficile da immaginare: i giovani di tutta Europa furono educati a questa scuola, dove veniva loro insegnato a disprezzare la propria storia, a considerare i propri padri alla stregua degli uomini della caverne, solo perché erano fedeli alla parola data, anche quando era contro il proprio interesse; inoltre essi sapevano perdonare i propri nemici, anche quando i loro avversari non ricambiavano la loro disponibilità; essi poi credevano, sforzandosi di rispettarla, che ci fosse una morale oggettiva ed eterna, anche se il mondo circostante badava al proprio tornaconto e ai propri successi individuali e egocentrici. Le grandi conquiste della Rivoluzione francese – conclude amaramente Rosmini – si possono rispecchiare in due stravaganti “virtù”, che portano il nome di 'menzogna' e di 'violenza', e gli “eroi” rivoluzionari non esitarono ad applicare queste due qualità ‘morali’ con estrema energia sia nel portare avanti la politica interna, come anche nel tessere e implementare l’influsso e l’espansione presso le nazioni straniere.

 

 

b) L’essenza della moralità

 

            Chiaramente, dato che la morale non può essere posta su elementi sensibili, resta allora aperto un comprensibile interrogativo: se il bene morale, non può risiedere nella 'sensazione', su quale altra facoltà umana è possibile appoggiarla?

            Al fine di cogliere in modo appropriato la centralità del problema, bisogna considerare che il male morale ha inizio da un errore volontario nel modo di ragionare, «da un falso giudizio di stima che la ragione pratica porta sugli enti »[28]. L’errore morale consiste in una valutazione erronea che la persona fa, prima di agire, nel momento di prendere una determinata decisione. Erronea significa ‘non corrispondente alla ragione’, perché si tratta di un giudizio sbagliato, falso, che non è basato si dati reali, per questo Rosmini aggiunge che la verità non è solo l’oggetto di riflessione del pensiero umano, ma è «anche il fondamento della morale»[29].

            Partendo dal ‘senso comune’ delle persone, in pochi dettagli, il pensatore trentino focalizza la risposta adeguata: «Non vi è alcuno che non sappia e non dica, l’uomo deve essere buono e non cattivo. Tutti sanno ancora che la bontà dell’uomo consiste nella bontà della sua volontà»[30]. E poco più avanti chiarisce che la bontà dell’uomo si concreta nella “bontà morale”, per cui l’uomo è buono in quanto la sua volontà possiede una singolare qualità che si chiama «bene morale, ovvero bene onesto»[31].

            Da tutto questo deriva una fondamentale riflessione, perché la necessaria conoscenza del bene, quindi la verità che l’intelletto coglie ed elabora, presa in se stessa, non possiede ancora la caratteristica della moralità, «è quando il soggetto vuole quel bene che colla mente conosce, che quel bene appunto, in quanto comincia ad essere voluto, in tanto comincia ad essere morale»[32].

            Se il bene morale non può risiedere nella ‘sensazione’, che – secondo il filosofo di Rovereto – è una potenza passiva; e dato che il bene per essere tale deve essere voluto, ne segue che il bene morale risiede nella volontà, la quale, quindi, deve essere considerata come il principio della moralità. Ma la virtù non è altro che riconoscere il bene con la ragione e volerlo con la volontà in modo tale che tale bene possa essere reso attivo e reale nella pratica della vita. Dato che l’unico vero bene che rende l’uomo buono è quello morale, anche la virtù che realizza il bene onesto non può che essere essa stessa una virtù morale.

            Ma cosa è richiesta alla virtù? La volontà umana verso dove deve orientare la propria libertà al fine di fare crescere e migliorare la virtù?

            La perfezione della virtù, nella quale risiede anche la grandezza morale della persona, esige che il credente sia determinato e impegnato unicamente a ricercare la volontà di Dio, in modo tale che, ignorando e mettendo da parte le proprie soggettive aspirazioni, i progetti individuali e i personali interessi non cerchi che di vivere secondo l’insegnamento di Cristo[33].

 

 

c) La ‘legge morale’

 

            L’insegnamento di Cristo non propone qualcosa contrario alla ragione umana, le sue parole sono quindi rivolte a tutta l’umanità, e divengono un indice di riferimento per capire se le iniziative umane sono realmente a vantaggio e in favore del progresso dell’umanità.

            Possiamo considerare il messaggio di Cristo una ‘legge’, una ‘regola’ morale? Per poter rispondere occorre avere una chiara definizione di ‘legge morale’.

            Rosmini scrive che «la legge morale non è che una nozione della mente, con la quale si fa giudizio della moralità delle azioni umane, e secondo la quale si deve operare»[34].

            In questa affermazione vi sono tre passaggi importanti ed essenziali: 1. Chi giudica deve avere chiara nella mente la distinzione tra bene e male, deve sapere quando una determinata azione deve essere giudicata buona, e quando cattiva; 2. In secondo luogo, questo giudizio che viene dato deve essere considerato vincolante, perché la natura umana esige che il bene venga scelto e che venga rigettato il male; 3. Da ultimo, si richiede che tale valutazione positiva sia messa in pratica nelle azioni prese in considerazione.

            Cosa è allora una “norma morale”? Cosa intende affermare Rosmini quando identifica la legge morale con una idea valutativa che deve guidare il giudizio sulle azioni?

            Affinché una persona sia in grado di giudicare la moralità di una azione si richiede che abbia la consapevolezza che i comportamenti umani non sono indifferenti e neutri; essi, infatti, portano delle conseguenze nella vita quotidiana. Le conseguenze possono essere positive o negative se considerate in rapporto ad una norma o ad una legge in base alla quale possiamo capire se le azioni sono un bene o un male per noi e per gli altri. Questa norma di confronto non ci viene consegnata dall’esterno, da qualche altra persona o da qualche testo scritto, perché questo codice è già in noi, in quanto ha la sua origine nella nostra intelligenza, e questa – come si è visto – è in grado di riconoscere le cose per quello che sono. L’uomo, una volta che ha riconosciuto la bontà di una determinata realtà, la deve considerare importante, la deve valutare come una cosa necessaria per la propria e per l’altrui felicità. Per questa ragione, nei suoi comportamenti non potrà trascurare di agire seguendo le indicazioni di questa legge che ha conosciuto, e secondo la quale, se vuole comportarsi rettamente, deve agire.

            Perché è così importante la “norma morale”? Perché man mano che l’uomo cresce, si abitua non solo a riconoscere le cose e a chiamarle per nome, ma inizia anche a relazionarle tra loro, a confrontarle, a giudicarle. In queste riflessioni può subentrare non solo la capacità di capire in cosa consistano gli oggetti in questione, ma può succedere che il giudizio venga condizionato dalla simpatia o antipatia di chi valuta, dalla sua propensione o anche preferenza verso tali oggetti, oppure dalla loro repulsione e rifiuto. Gli affetti e i sentimenti possono quindi, con il tempo, condizionare molto la valutazione che viene data ad eventi, a cose, a persone.

            Avere una chiara nozione della ‘legge morale’ consente di non incorrere nell’errore di giudizio, ed aiuta a non cadere nel tranello dei condizionamenti empatici, emotivi o anche sociali che deformano e manipolano la verità dei concetti e la realtà dei fatti.

 

 

d) Moralità oggettiva e soggettiva

 

            Sebbene la società moderna non è più abituata a definire il significato e il peso relazionale che le parole portano con sé, resta tuttavia evidente che il linguaggio continua a modellare l’educazione, a incrementare il progresso, a determinare la politica, a regolare i rapporti tra le nazioni.

            Per queste motivazioni, nelle valutazioni morali, è necessario richiamare una essenziale distinzione, quella cioè tra “bene soggettivo” e “bene oggettivo”. Di cosa si tratta?

            Mentre il bene oggettivo si realizza quando la volontà ama il bene di per sé, perché contemplato nella sua pienezza di essere, il bene soggettivo, o – come lo chiama Rosmini –, il bene eudemonologico, è il bene limitato al soggetto e temporaneo nella sua durata. Tanto nel bene oggettivo come in quello soggettivo la persona è chiamata a usufruire e godere di una data realtà attenendosi a valutazioni di giustizia.

            Una interessante spiegazione a questo riguardo viene sviluppata dalla Manfredini, secondo la quale «Rosmini intende definire il bene morale che, a differenza del bene eudemonologico[35] – il quale è sempre soggettivo – è bene oggettivo. Per definire il bene morale occorre quindi avere chiara la nozione di bene oggettivo: bene oggettivo è quello che viene percepito intellettivamente, diventando perciò oggetto della nostra intelligenza. Il bene soggettivo (eudemonologico) è appreso specificamente dal senso e tende a soddisfare i nostri appetiti. La fruizione del bene soggettivo implica, di natura sua, il godimento nel soggetto che ne fruisce. Non così per il bene oggettivo che – ripetiamo – è oggetto dell’intelligenza, la quale è atta a cogliere, in virtù dell’idea dell’essere, il bene in universale, prescindendo del tutto dalle inclinazioni della natura sensitiva e dagli appetiti radicati negli istinti»[36].

            Occorre chiarire che il bene soggettivo non è necessariamente un bene egoistico, infatti tutti i beni di cui l’uomo ha bisogno per la sua sussistenza e la sua attività quotidiana – come il mangiare, il bere, il dormire, ecc. – possono essere goduti solo dal soggetto, ma non per questo sono da considerarsi atti negativi o peccaminosi. Si tratta tuttavia di beni soggettivi in quanto il loro godimento non può essere sperimentato da nessun altro se non dall’individuo che usufruisce in quel preciso momento di quel determinato piacere sensoriale. Non a caso il Roveretano tiene a precisare che l’eudemonologia «è la scienza che insegna a formare la propria felicità», e – come tiene a spiegare subito dopo – la felicità umana non è altro che un “bene soggettivo”.

            Ma cosa si intende, invece, per bene oggettivo? Per portare il lettore a cogliere il significato di “bene oggettivo”, Rosmini ricorda che esso va definito anche come “bene morale”. Per comprenderlo occorre rimanere aderenti all’aspetto etimologico del termine, perché esso consiste in ogni “bene” che «viene percepito oggettivamente»[37], cioè in quanto è “oggetto” dell’intelligenza e quindi della conoscenza. Nell’universo fisico, il conoscere è possibile solo all’essere umano, il quale tramite l’intelletto è in grado di cogliere gli oggetti e di capire che in se stessi tali oggetti sono un bene, anche se egli non gode fisicamente di essi attraverso i sensi. Ogni cosa esistente è in sé un bene, anche nel caso in cui la persona non ne fruisce direttamente.

            Questo perché il bene oggettivo è molto più esteso del bene soggettivo. Infatti, «il soggettivo è il bene proprio del soggetto; ma l’oggettivo è qualunque bene, sia egli proprio del soggetto che lo contempla (e quindi soggettivo) o no, non significando altro la parola oggettivo, se non contemplato, a quel modo nel quale egli è, dalla intelligenza»[38].

            Il soggetto umano tramite il sentimento fondamentale, costantemente “sente” se stesso (l’Io), mentre le sensazioni non sono altro che modificazioni di questo “Io”. Ogni essere umano oltre a percepire se stesso, è anche in grado di percepire e sentire le cose esterne a sé, e questo avviene ogni volta che i suoi sensi vengono a contatto con qualche elemento materiale della realtà esteriore: è questo il dato soggettivo, dipendente e strettamente legato alla sfera del sentimento. Come si può notare, tutto avviene all’interno della realtà sensoriale della persona.

            L’intelligenza, al contrario, possiede la capacità di riconoscere ciò che avviene all’esterno del soggetto. Con l’intelligenza «si concepisce e conosce sempre oggettivamente»[39]. “Oggettivamente” significa che la persona umana riconosce che le cose contemplate fuori di sé sono un bene a se stante, e che la loro perfezione e bontà può essere apprezzata non necessariamente da una sensazione fisica, ma da quello che si potrebbe definire ‘sensazione intellettuale’. L’anima sente che le cose hanno un valore e sono una eccellenza anche quando non vengono ‘gustate’ dai sensi. Questa valutazione può avvenire perché ogni soggetto dotato di razionalità è capace di dare un giusto apprezzamento agli elementi che viene a conoscere, e considera di somma importanza poterli ammirare come sono, tenendo nella debita considerazione i loro giusti pregi. Questo giudizio non mortifica e non toglie nulla alla ricchezza individuale e interiore della persona, ma, al contrario, la contemplazione di questi “oggetti” accresce la cultura, il gusto estetico e il rispetto per l’ordine naturale presente attraverso le specifiche qualità e modalità del mondo circostante, e in particolare sa riconoscere l’essere e quindi il bene di ciascuno di questi enti. E il bene di ogni essere è un bene per la persona che lo sa riconoscere.

 

 

e) Oggettività e perfezione

 

            Ma vi è anche in aggiunta una singolare motivazione, di particolare rilevanza da prendere in debita considerazione. Ogni soggetto dotato di intelligenza, dopo avere giudicato imparzialmente, senza alcun egoistico interesse, le “cose in sé” «gode infine perché egli è consapevole di usare verso quegli oggetti un atto di giustizia, riconoscendo i loro pregi, senza avere alcun riguardo a se stesso; e questa giustizia, questo disinteresse, questo omaggio alla verità, che si racchiude essenzialmente nell’atto del conoscere, e si consuma poi coll’adesione della volontà, è appunto ciò che produce nel soggetto intelligente quel sublime diletto, che viene insieme con la conoscenza»[40].

            Vale la pena evidenziare il fatto che nella valutazione oggettiva della realtà, si pone in primo piano la verità, ed è questa, in ultima analisi, ad essere contemplata, riconosciuta e amata.

            Il nesso tra la verità e la virtù è strettissimo, perché ambedue sono legati al medesimo essere, il quale «essere in quanto illumina la mente è verità; in quanto è voluto senza limite né arbitraria esclusione, è oggetto di virtù; finalmente in quanto si comunica pienamente all'uomo, diventa forma della sua beatitudine»[41].

            Questa congiunzione tra la verità e virtù porta ad acquisire uno dei doni più alti in grado di introdurre la persona umana a cogliere e sondare i misteri divini, infatti due sono gli elementi che insieme divengono «parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità, e la vita alla verità conforme, nel che consiste la virtù»[42]. Il cammino umano si completa nella misura in cui si prende coscienza del fatto che il bene viene a identificarsi con la verità, la quale si può accogliere solo tramite l’intelligenza; l’uomo cresce nella perfezione nella misura in cui conforma le proprie azioni ed i propri comportamenti alla verità che viene progressivamente a conoscere. Conformare se stessi alla verità richiede tuttavia un atto specifico che si può realizzare solo tramite la volontà. Ma quando questo avviene, l’essere umano ha aperto il proprio cuore al dono della ‘sapienza’.

            Il processo autoformativo, se da una parte richiede che l’intelligenza sia coltivata mediante una sana filosofia, dall’altra esige che la volontà venga piegata alle esigenze del bene mediante l’esercizio delle buone azioni, le quali, quando diventano costanti e si trasformano in abitudini buone, prendono il nome di virtù[43].

            La verità, pur essendo una, rivela, nella sua essenza, una singolarità: filosofia e religione cristiana hanno in comune il principio di verità. Si potrebbe dire che la riflessione che riguarda le realtà mondane e quella che concerne la vita di fede concordano su di un punto centrale e determinante, cioè riconoscono che il desiderio profondo degli esseri intelligenti è quello di arrivare ad una conoscenza veritiera e affidabile della realtà del mondo e di Dio.

            Vi è purtuttavia una fondamentale diversità, vale a dire che la verità riguardante le conoscenze terrene «in quanto è lume naturale dell’uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta»[44]. Nella filosofia l’uomo conosce la verità idealmente, dato che nelle idee viene a conoscere gli elementi specifici di una determinata realtà; nel culto cristiano il credente non viene a conoscere l’idea di Dio, ma conosce direttamente l’Essere divino, perché ha la possibilità e la grandezza di entrare in diretto contatto e in comunione con Dio.

 


VIRTÚ E MORALITÁ

 

«Opera secondo quello che il lume della ragione ti prescrive oppure ti fa capire in quale modo è tuo dovere agire»[45].

 

 

a) Amore alla filosofia

 

            La virtù – o anche la sola disposizione alla virtù – conduce alla verità, tanto l’uomo immerso nelle attività di ogni giorno quanto coloro che si impegnano nella indagine filosofica.

            L’indagine filosofica non è un approfondimento riservato a pochi studiosi. Ogni persona ama conoscere e capire, anche coloro che non hanno potuto intraprendere, portare avanti o accrescere i propri impegni scolastici. Ogni persona si interroga sul significato della propria vita, sulla finalità dell’universo, sulla continua provocazione del limite umano, del male, della morte. Sono tutte questioni ‘filosofiche’ comuni ad ogni essere umano. Ed ogni individuo dotato di intelletto sviluppa e cerca risposte ai quesiti etici, culturali e universali. Ogni persona, ogni essere umano è ‘naturaliter’ filosofo, cioè – come viene affermato nella Fides et Ratio - «l'uomo è naturalmente filosofo»[46], perché la ragione umana è per sua natura ‘filosofica’. La filosofia – si potrebbe aggiungere – è una scienza ‘innata’, perché il desiderio e la curiosità di conoscere fanno parte integrante della razionalità. La mente umana porta in sé i germi della ricerca razionale che indaga sul significato, sul principio e sulla finalità del mondo visibile e di quello invisibile.

            Inoltre, in questo approfondimento ogni uomo e donna desiderano che gli altri siano sinceri e trasparenti. Nessuno ama o vuole essere ingannato. Tutti anelano e ricercano la verità. Questa ricerca, quando viene avviata con cuore sincero, si identifica con la virtù, infatti – afferma Rosmini – «la virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti che quelli che vogliono filosofare»[47].

            È in questa ricerca della verità dove risiede «l’onore e la dignità della filosofia»[48], perché la sapienza risiede nella simbiosi tra virtù e verità, ambedue necessarie all’indagine filosofica, e questa, a differenza di ogni altra scienza, esige di essere stimata, custodita e coltivata da un vero sapiente.

            Rosmini scopre che l’amore stesso, perché possa essere pienezza di vita, ha bisogno dello spirito filosofico, inerente per natura al cuore umano, per cui «l’amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll’odio; e quello che non mira a condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo»[49]. La filosofia, come l’amore, si fonda sul connubio tra virtù e verità. Ambedue non sussistono dove vi fosse la presenza dell’errore, il quale crea divisione tra le persone e introduce conoscenze parziali e per questo poco veritiere. L’amore, quindi esige l’integrità e la compiutezza dell’oggetto. Ma le stesse cose sono richieste dalla ricerca razionale, per questo Rosmini non esita a sostenere che «solo quella filosofia che abbia per caratteri l’unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perché quei due caratteri sono la virtù e la verità[50]. Ma queste qualità – come si può notare – sono le stesse che pervadono tutto il vangelo, il quale tende a portare ad unità – “un cuor solo ed un’anima sola” (At 4,32) – tutti gli uomini, e, contemporaneamente desidera abbracciare la totalità delle persone – “un solo ovile, sotto un solo pastore” (Gv 10,16) –.

            Il Roveretano è profondamente convinto che solo una sana filosofia consenta una vita associativa ordinata, rispettosa delle leggi e sede della benevolenza sociale. Quando questa sana filosofia viene a mancare, ogni attività rimane inevitabilmente contagiata e alterata dalle passioni personali, dai pregiudizi, dai bassi calcoli, dagli interessi individuali, dal materialismo. Per il Nostro non vi sono molteplici filosofie. La ricerca della verità caratterizza e qualifica l’unica e genuina filosofia, ed ogni essere umano è in grado di ricercare la verità, che diviene legge morale e orientamento etico. Fuori dalla verità vi è solo il territorio dell’errore, da cui sgorga l’aridità del cuore, l’individualismo e la degenerazione dei costumi. Questo processo degenerativo deriva palesemente «dalla sovversione, anzi dall’annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo […] derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagogia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte le altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime»[51].

            Alla luce di questa constatazione si comprende il proposito di Rosmini di dedicare le proprie forze a ridare dignità e prestigio culturale a questa primaria scienza speculativa. Confida infatti al Tommaseo il suo profondo desiderio e aspirazione «di rivolgere tutto a restaurare le rovine della filosofia per farla servire alla Religione. Mi sembra di essere chiamato a questa opera dal Cielo, ve lo confesso: io sento una voce in me stesso che me lo comanda, una forza che mi vi trascina»[52]. E subito dopo esorta accoratamente anche il poeta dalmata a dare il proprio apporto e contributo a questo compito: «Io vi prego, anzi vi scongiuro di sostenetene voi pure l’impresa, che tanto potete. Proclamate i buoni principi, richiamate gli uomini dal letargo intellettuale in cui sono caduti, sollevateli dalla materia allo spirito»[53].

            Questa lettera al Tommaseo porta la date del 1827, quando Rosmini, nel suo trentesimo anno di vita, si trova a Milano per dare maggior potenza e ordine al suo pensiero e alle sue ricerche scientifico-letterarie, e quando ha ormai raggiunto una personale maturità umana e spirituale; l’anno seguente imprimerà nuovo corso alla propria vita, dando inizio ad una Congregazione religiosa.

            È interessante osservare la convinzione di Rebora sulla santità di Rosmini in relazione al recupero del pensiero umano e della sua razionalità. Egli scriveva che «la divina Provvidenza […] andava preparando [Rosmini], fin dai primi suoi anni, a un’eccelsa santità, per affidargli l’immane compito di rendere avvertite le coscienze pensanti dell’urgenza di un’universale instaurazione in Cristo»[54].

            Robera aveva colto perfettamente nel Fondatore l’adolescente e genuino anelito innovativo, infatti il legame profondo tra la filosofia e la virtù è già presente nel giovane Rosmini, il quale, ne Il giorno di solitudine, nei suoi sedici e diciassette anni, rivolge alla prima donna di cui si è invaghito, la Filosofia, [le altre due sono l’Amicizia e la Religione], un cantico di lode e di richiesta:

 

«O gloriosa donna […]

Virtù senza te pere […]

Ogni troppo disio tua possa affrena

E d’ogni alta virtù l’alma fai piena»[55].

 

 

b) Progresso civile, se morale

 

            Il bene morale non può essere raggiunto senza la virtù.

            Affermando che la realtà morale deve essere identificata con la bontà della persona umana, si vuole evidenziare che solo il bene morale è in grado di perfezionare l'uomo. Va pertanto tenuto presente che qualsiasi progresso intellettuale e sociale che non ha come intento quello di portare l'individuo a migliorare nella virtù non rende l'uomo più buono.

            La ragione umana non ha in sé una certezza automatica di raggiungere obiettivi intrinsecamente positivi, essa infatti appartiene a quel genere di potenzialità personali le quali possono contribuire a realizzare i maggiori beni, ma anche i più grandi mali. Tutto, quindi, dipende sia dagli oggetti verso cui l’essere umano orienta i propri desideri, sia dal fine a cui tende e verso cui impiega tutte le personali facoltà.

            La stessa cosa può essere detta anche per quanto riguarda la crescita e il miglioramento di una società, la quale, essendo un ‘corpo sociale’, viene costituita per uno scopo, per un obiettivo da raggiungere e il cui compimento rende tutti i membri partecipi del bene conseguito. Appare chiaro pertanto che qualsivoglia società umana non è resa migliore e più perfetta dalle sue strutture, perché le strutture di qualsiasi gruppo sociale non sono altro che delle invenzioni umane, dei ‘metodi' da usare per aiutare i membri di quella congregazione a crescere moralmente e personalmente e per educare le nuove generazioni. Un metodo efficace e incisivo può portare a realizzare il vero bene, solo nel caso in cui venisse usato in maniera retta, ma il metodo in se stesso non può essere considerato il fine, lo scopo, il vero bene da raggiungere da parte di una qualsiasi aggregazione civile o religiosa.

            Per avere un indice sicuro sul cammino di perfezione dell'umanità non bisogna fermarsi alla bontà teorica degli strumenti utilizzati, ma occorre verificare se ci sia stato un progresso nel mettere in pratica e nell'implementare le virtù morali.

            Il fine di una società deve allora rispondere a determinati requisiti morali, che consentono ai singoli membri di partecipare attivamente al riconoscimento del bene ultimo e al suo perseguimento.

            Il progresso civile, che dagli studiosi contemporanei viene ridotto al semplice sviluppo delle facoltà intellettive, o alle conquiste tecnologiche raggiunte, dovrebbe essere tenuto distinto chiaramente dalla perfezione umana, perché solo in quest'ultima è possibile realizzare e mettere in atto un progresso morale. Confondere progresso civile e progresso morale è un nefasto errore che ha trovato particolare condiscendenza presso il ‘Sensismo’. Credere che il progresso scientifico e culturale sia sufficiente a rendere l’essere umano migliore e più buono, significa che si è posta poca attenzione al significato, al valore e alla configurazione dell’ordine morale, pensando che una persona colta ed erudita, solo a motivo delle sue molteplici conoscenze, debba essere considerata anche come persona retta e giusta. La smentita giunge quotidianamente e regolarmente dai fatti di cronaca che rispecchiano tutto il mondo civilizzato.

            A questo riguardo sono particolarmente esaustive le parole del filosofo trentino :

            «Purtuttavia, solamente il bene morale è ciò che perfeziona l’uomo: perché qualsivoglia sviluppo intellettuale e sociale, ove non sia ordinato ad accrescere la virtù nell’umanità, per questa è perduto, questa non diventa migliore, non aumenta la perfezione. No; la intellettiva potenza non ha un pregio finale, ma essa appartiene alla classe di quelle cose, che si possono volgere e in bene e in male, e che dall’oggetto a cui si volgono ottengono il loro valore. Il medesimo dicasi del componimento esteriore della società: le forme sociali non sono buone se non a condizione che, di fatto, migliorano moralmente gli uomini»[56].

            Sebbene l’ordine morale e l’ordine intellettuale siano nella loro essenza configurati per una condivisione di principi e abbiano il medesimo fondamento nella verità, sovente vengono messi tra loro in contrapposizione, alterando le finalità che competono a ciascuno di essi[57].

 

 

c) Formazione e moralità

 

            Occorre riflettere che, sino a quando i contenuti della mente verranno confusi con le idee morali, si procederà a considerare anche le azioni più malvagie come comportamenti leciti, perché, facendo coincidere i principi morali con le conoscenze acquisite, si giunge a togliere anche ai delitti più orrendi il disordine insito nella loro stessa natura, per cui, tali misfatti, prima «si guardano con indulgenza, poi con segreta compiacenza, poi l’uomo si adegua ad essi»[58], mettendo a tacere nella coscienza il ribrezzo e il rifiuto che l’amore al bene suscita naturalmente nell’essere umano. Si giunge così a «trasformarli in virtù col prestar loro un culto come fossero idoli, coll’imitarli e con l’emularli»[59].

            Da tutto questo si comprende quanto sia necessario che accanto alle conoscenze intellettuali, ai giovani venga inculcato e insegnato l’amore e l’esercizio della virtù. Ma perché questo avvenga, è necessario che coloro che amano il bene dell’umanità e che hanno assunto posti di rilievo, coloro che hanno ruoli pubblici di influenza culturale e mediatica, vale a dire: l’impegno degli scrittori, l’orientamento dei molteplici opinion-makers, le proposte delle varie comparse del mondo dello spettacolo convergano verso una costruttiva dimensione: quella morale.

            A motivo della presenza ancora ampia di concezioni distorte si presenta la necessità di diffondere in modo altrettanto estesa l’istruzione e la formazione morale. Compito dell’educazione è infatti quello di inculcare nel cuore e nella mente delle giovani generazioni l’amore e la quotidiana adesione alla virtù, molto più che non il nozionismo.

            Dato che la virtù comprende in sé anche l’amore alla verità, e la verità non può ignorare le cognizioni umane, coltivando la perfezione morale si ha la certezza che sia le conoscenze tradizionali, che quelle innovative dell’umanità non verranno trascurate; mentre, al contrario, la semplice conoscenza teorica delle varie materie che sono oggetto di studio nel percorso pedagogico, non garantiscono la presenza dell’educazione alla moralità e, di conseguenza alla virtù. Per cui si rischia di avere alunni che hanno curato enormemente l’aspetto fisico e culturale, ma poco sviluppato il senso morale, e la perfezione della volontà.

            Da qui l’esigenza che i vari autori di opere letterarie, artistiche o scientifiche si prodighino a riportare la riflessione dei lettori, al momento incanalata esclusivamente nelle realtà provocanti e appariscenti, entro il cammino del bene umano, affinché, questo ‘elemento morale’ «quasi silenzioso venga raggiunto dal pensiero umano, venga attentamente osservato, venga apprezzato, e non rimanga nascosto nell’interiorità dell’uomo come se non esistesse»[60].

            Al fine di raggiungere una equilibrata e corretta valutazione è bene evidenziare che, sebbene l’elemento morale non possa essere confuso né con i dati della sensibilità né tanto meno con le conoscenze intellettive, tuttavia, sia la realtà sensibile che quella cognitiva sono essenziali al fine di formulare il giudizio morale.

 

 

d) ‘Stima’ e ‘Atto morale’

 

            Va, in ogni caso, tenuto presente che gli affetti e i comportamenti umani devono essere considerati moralmente buoni quando sono ragionevoli, e, al contrario, sono moralmente riprovevoli quando si rivelano irrazionali. La ragionevolezza «risiede nella conformità della stima pratica degli oggetti con la stima speculativa che di essi facciamo»[61].

            Cosa intende dire Rosmini con questi termini poco usuali nel linguaggio attuale? Nonostante la complessità della lingua, si può legittimamente riconoscere, in questa affermazione, l’origine e l’essenza della moralità. O, per ripetere la poco familiare espressione rosminiana, «la moralità non è altro che la conformità della stima pratica colla stima speculativa che l’uomo fa degli oggetti»[62].

            Rosmini usa il termine ‘stima’ per indicare il peso che hanno le parole quando si giudica una qualsiasi cosa o anche quando si prendono in considerazione gli avvenimenti presenti nella vita di una persona. Si ‘stima’ una cosa, un evento o un’idea quando le si attribuisce una determinata qualità o un determinato valore. Se la ‘stima’ è veritiera e il giudizio che viene dato è corrispondente alla realtà, in tal caso si ha una ‘stima speculativa’, cioè le nostre valutazioni sono corrette, per cui, ciò che pensiamo non è contrario, anzi coincide alla realtà delle cose o dei fatti in questione.

            Quando l’oggetto pensato ci porta ad agire senza alterare la verità che abbiamo conosciuto, ma facciamo uso degli oggetti o delle idee in modo corretto e rispettoso di ciò che essi sono, in tal caso la nostra attività si deve considerare morale. La stima pratica, infatti, è la decisione di agire rispettando e dando il giusto peso a tutto ciò che entra nella nostra sfera di azione.

            In altre parole, possiamo asserire che la stima speculativa consiste nell’atto che compie la ragione umana quando riconosce un oggetto nel suo giusto grado, mentre la stima pratica è l’uso corretto che si fa degli oggetti conosciuti. Quando questi due comportamenti hanno luogo in maniera ordinata e consequenziale, si realizza quello che viene chiamato l’atto morale. Nell’atto morale, pertanto vi è la iniziale presenza del giudizio, a cui deve seguire coerentemente l’azione. Quando, ad esempio, siamo dinnanzi al televisore seguendo un qualsiasi evento, e nella nostra mente ragioniamo e diciamo a noi stessi che il programma in corso è fatuo, vanesio e dispersivo, per cui sarebbe meglio non perdere il proprio tempo e fare qualcosa d’altro di più intelligente e istruttivo; qui ci troviamo ancora nel giudizio speculativo, nella riflessone teoretica. Nel momento in cui con la nostra volontà prendiamo la decisione di agire, e di conseguenza azioniamo il telecomando, spegniamo il televisore e iniziamo a leggere un buon libro, in questi passaggi noi realizziamo e mettiamo in atto il nostro giudizio pratico.

            Rosmini tiene a precisare che nessun giudizio è possibile se non si conosce l’oggetto che si deve valutare. Il primo passo quindi è la conoscenza di ciò che bisogna giudicare. Ma quando si pone un giudizio su di una cosa, in realtà non si fa altro che “ri-conoscere” ciò di cui in precedenza ci si era già formata un’idea. Gli oggetti infatti vengono giudicati in base all’idea che di essi si è formulata nella nostra mente la prima volta in cui ci si è imbattuti in loro. Quando noi veniamo inizialmente a contatto con un oggetto qualsiasi e ne apprendiamo il nome, in quel momento imprimiamo nella nostra mente l’idea di quell’oggetto che ci ritornerà alla memoria ogni volta che vedremo o nomineremo quel medesimo elemento. Tutte le volte successive, quest’oggetto viene ‘ri-conosciuto’ perché corrispondente all’idea dell’oggetto che ci si è formata in quel primo incontro. Per questa ragione, Rosmini afferma che il “supremo principio della morale” è il seguente: «il riconoscimento pratico degli enti»[63]. Questo procedimento è così consequenziale e ragionevole per cui «stima pratica, giudizio pratico, riconoscimento pratico»[64] non sono altro che sinonimi.

            Che conseguenze derivano da questo ‘riconoscimento’?

            Si arriva ad una considerazione fondamentale secondo la quale – spiega Rosmini – la ragione umana è in grado di instaurare un legame affettivo anche con le cose, in base al loro valore e qualità. Per cui le realtà materiali vanno considerate come un vero bene per l’essere umano, in proporzione ovviamente della loro importanza e del loro grado. Spetta alla ragione saper riconoscere il peso e la portata di ogni oggetto ed elemento conosciuto.

            Aderire a questi oggetti è opera della volontà, e se la stima, cioè la considerazione e il valore che viene dato è corrispondente al bene reale dell’oggetto, allora anche la persona acquisisce sia il bene dell’oggetto, come anche il bene che deriva dall’aver compiuto una giusta e retta valutazione e scelta. L’affetto con cui ci si lega ad un oggetto non è precedente alla stima che la ragione fa di esso, ma è susseguente. La volontà quindi non è influenzata dal legame e dalla attrazione che può derivare dal desiderio dell’oggetto in questione, dato che questo è posteriore alla sua valutazione. La comprensione di questo procedimento nella psiche umana, aiuta a capire un altro importante aspetto della moralità, infatti, la scelta morale non risiede nel discernimento della ragione, ma nella determinazione della volontà. La moralità, in pratica, non è un atto razionale, ma volitivo: il bene conosciuto con la mente, viene amato, voluto e attualizzato nella realtà esistenziale[65].

 


LA SORGENTE DELLA MORALITÁ

 

«La virtù non solo è il migliore dei beni, ma è ancora la condizione e la legittima origine di ogni bene»[66].

 

 

a) L’essenza del Cristianesimo

 

            L’essere umano è in grado di volere qualcosa e di considerarlo come un proprio bene solo quando ne viene a conoscenza. Inoltre, una volta che si possiede la conoscenza di tali beni, il volerli a tutti i costi senza essere ancora in grado di poterli possedere, fa sorgere nella persona la presenza di un forte desiderio. A sua volta, la attrazione di tale desiderio si va ingrandendo ed espandendo nella misura in cui sia la conoscenza, che l’esperienza delle cose diventano sempre più ampie e si arricchiscono di nuovi oggetti.

            Nelle realtà naturali non vi può essere una piena e completa soddisfazione del desiderio, dato che terminato l’effetto gratificante, nuovi stimoli e nuove esigenze si fanno avnati.

            Nelle realtà soprannaturali, mediante la fede, l’uomo giunge a conoscere e sperimentare le cose divine, e dal momento che queste sono infinite, il desiderio umano, nel ricercare i beni del cielo è in grado di estendersi all’infinito.

            In pratica, il Cristianesimo produce nell’animo umano lo stesso effetto che in precedenza lo stesso Cristianesimo, mediante la grazia, aveva prodotto nell’intelligenza umana. Infatti, la religione cristiana ha posto nell’animo una fonte inesauribile e si può dire infinita di luce intellettiva, come se si trattasse di un fuoco inestinguibile. Questo aspetto risulta maggiormente comprensibile se consideriamo che la luce particolare offerta dal Cristianesimo all’umanità non consiste in una nozione fredda e inanimata, la quale, come tale, sarebbe incapace di guidare e orientare la vita umana. Si tratta, al contrario, di un bene reale, concreto e assoluto il quale, una volta accolto e posseduto diviene il supremo ‘principio’ di ogni esercizio umano. Questo ‘principio’ dà origine e direzione alle azioni delle persone, portandole ad una conoscenza piena e intima della gioia e della comunione con le persone divine e con la comunità umana già entrata nella vita celeste.

            Questa conoscenza ed esperienza della vita di Dio consente di capire che il cuore umano è fatto per una felicità totalizzante, in secondo luogo essa suscita un desiderio non più legato a beni temporanei e passeggeri, e da ultimo pone nel cuore umano la consapevolezza di una infinita pienezza e appagamento. Da questo deriva un dato di particolare rilevanza, perché la comunione con Dio è «un bene reale ed assoluto, atto a divenire il sommo e più efficace principio dell’attività umana»[67]. Inoltre «questa immensità di desiderio è il carattere visibilissimo delle nazioni cristiane»[68], infatti le società anteriori a Cristo non ebbero mai un concetto così onnicomprensivo e assoluto della felicità umana come viene ora offerta e inculcata dal messaggio evangelico.

            In queste osservazioni riguardanti la avvolgente e unitaria partecipazione dell’essere umano alla gloria e alla gioia infinita ed eterna di Dio, Rosmini inserisce e approfondisce le tre forme dell’essere in relazione alla virtù e alla morale.

            La premessa che introduce il lettore in questa nuova visione rientra perfettamente nello schema rosminiano dell’essere come perfetta coincidenza con il bene. Per cui, se l’essere, pur essendo ‘uno’ si presenta nelle tre differenti forme dell’essere ‘reale’, ‘ideale’ e ‘morale’, anche il bene deve possedere le tre medesime modalità. Tali modalità sono relative e parziali nelle creature, mentre hanno valenza assoluta nell’essere divino. Per cui, «il sommo bene, quale venne proposto e promesso al mondo dal Cristianesimo, è triplice, cioè contiene il bene reale, il bene intellettuale, e il bene morale: tre beni ugualmente infiniti, ma tutti e tre accolti in un solo oggetto semplicissimo, che è Dio»[69].

            I filosofi del passato non sono stati in grado di cogliere la presenza, l’unità e il valore di questi tre beni racchiusi nella beatitudine. Solo grazie a Cristo si è potuto venire a conoscenza di questo bene reale, ideale e morale assoluto presenti unicamente nella meravigliosa natura divina.

            Si è verificata la stessa cosa per l’elemento morale. Anche in questo caso, le antiche filosofie, a motivo dei limiti dottrinali che inevitabilmente erano inerenti ai loro insegnamenti, non possedevano la chiarezza di verità e la potenza del sentimento soprannaturale per poter cogliere la qualità e il valore dell’ente morale come prerogativa della virtù. La dottrina sulla virtù, infatti, trova la sua precisa formulazione grazie al «concetto perfetto del sommo bene reale»[70], che solo nel Cristianesimo raggiunge una adeguata corrispondenza tra teoria e prassi, tra concetto e realtà, tra pensiero e sentimento. Ne segue la consapevolezza che la moralità nella sua valenza assoluta, non è solo un atto della conoscenza, e neppure la conseguente attuazione volitiva del bene riconosciuto, ma comporta necessariamente «una misteriosa esperienza di Dio stesso»[71]. Tale esperienza deve essere riconosciuta e definita come l’essenza del Cristianesimo, o – per usare la stessa espressione del pensatore trentino – «è questa arcana ma reale comunicazione di Dio all’uomo, che forma il dogma principale e fondamentale del Cristianesimo, l’essenza di questa religione»[72].

            L’insegnamento cristiano promette all’uomo di renderlo abile e capace di ‘sentire Dio nel proprio animo’, ma il cammino di fede non solo è in grado di mantenere simile promessa, ma porta in sé una ulteriore qualità: suscita nell’animo un desiderio di infinito che agita e smuove dalle fondamenta lo spirito umano rendendolo insaziabile e instancabile nel desiderare non solo per sé, ma per ogni essere umano, quella felicità piena e totale che si può ottenere solo nella nuova dimensione soprannaturale resa ora disponibile dalla incarnazione del Figlio di Dio.

 

 

b) La libertà

 

            Ad un profondito esame si coglie un nesso, un legame, un vincolo, un intreccio particolarmente forte tra libertà e moralità, tanto che la libertà viene a coincidere con la stessa virtù morale.

            Al fine di comprendere questa affermazione, giova tenere presente la distinzione tra natura e persona.

            La natura dell’uomo è relazionata a tutto ciò che riguarda la vita fisica e affettiva, dove le esigenze fisiologiche o i moti emotivi nascono spontaneamente nell’essere umano, e non dipendono da alcuna decisione o determinazione del soggetto.

            La persona umana, al contrario, si distingue da ogni altra creatura in quanto è in grado di giudicare, valutare e scegliere quali iniziative intraprendere, quali azioni mettere in atto e come portarle a compimento. Questa singolarità della persona umana risiede nel fatto che ogni umano individuo possiede due particolari ‘potenze’ che primeggiano, sovrastano e dirigono ogni altra facoltà fisica o psichica del soggetto.

            L’intelligenza e la volontà sono le due qualità specifiche che consentono di individuare e determinare l’identità personale delle creature umane. Queste due potenze, oltre ad essere in grado di controllare e governare, nel soggetto di cui fanno parte, gli elementi naturali, affettivi e psichici, sono anche la sede della libertà, e di conseguenza anche della moralità. L’atto morale è infatti un atto libero, perché solo una libera decisione consente di aderire volontariamente alla verità e di amare il bene in sé, non per opportunismi o individuali soddisfazioni, ma solo e unicamente perché è ‘bene oggettivo’.

            Inoltre, nell’atto libero si moltiplica indefinitamente l’attività umana, l’uomo esce dal ristretto e chiuso ambito soggettivo per aprirsi ad una sfera di azione dove è possibile il contatto con ogni altra realtà, l’essere umano «diventa arbitro fra tutto ciò che è soggettivo, e tutto il resto dell’essere quanto ve n’ha, il che è quanto dire, diventa arbitro fra il finito e l’infinito, fra sé e Dio»[73]. La libertà diviene pertanto il principio dominante, il potente signore e arbitro di tutte le forze e di tutte le azione spontanee. L’unicità e la singolarità della libertà è tale che in questo ‘principio d’azione’ vi è «tutta la potenza e l’attività dell’uomo; perché in esso solo sta il vero agire della persona»[74]. Da queste considerazioni si deve dedurre che nell’uso della libertà si concreta anche l’unico vero e massimo bene soggettivo della persona umana.

            Dato però che l’ambito della libertà coincide con il territorio della moralità, e poiché nell’uso adeguato e naturale della libertà umana si realizza la virtù morale, è logico concludere che nella «virtù morale sta il massimo bene dell’umana natura, e l’unico bene della persona umana »[75].

            Come si può notare, il bene personale soggettivo è tale se rientra entro i parametri della virtù e quindi della moralità. Ma dato che la sfera morale delimita l’attività umana nello spazio del bene oggettivo, ne segue che il vero bene soggettivo è tale solo se viene avvolto e contemplato nella oggettività del bene. Il bene, a sua volta, abbraccia l’essere in tutta la sua estensione e universalità, per cui il prezioso tesoro della libertà introduce nei meandri alti e meravigliosi dei beni oggettivi dell’essere.

            La libertà è talmente immensa da essere considerata come «il più desiderabile bene della umana e sociale, [e] come la radice, e la generatrice di tutti gli altri beni»[76].

            Si giunge a questa conclusione perché tutti i diritti della persona umana, sia nella sua singolarità che nella sua socialità, in ultima analisi, si riducono alla libertà.

            Il diritto – afferma Rosmini – non è altro che «una facoltà di operare, protetta dalla legge morale, che vieta agli altri uomini di impedirla nel suo esercizio»[77].

            Il ‘diritto’ quindi consiste in ogni attività umana che opera entro i parametri della giustizia, e che quindi non danneggia né colui che la compie, né le altre persone. Tale attività deve essere mossa soltanto dal desiderio del bene e all’interno del bene comune.

            Risulta altrettanto chiaro che il diritto richiede ed esige la libertà, perché solo una azione libera, priva di condizionamenti, consente alle persone di realizzare i propri desideri e di portare a compimento i propri disegni e aspirazioni. Il diritto, quindi la libertà di azione, non può essere limitato dagli altri in quanto esige sia la protezione della legge civile, come anche il rispetto da parte di ogni membro della società.

            Tutti i beni umani sono riconducibili alla libertà. Senza di essa la società diviene una prigione, perché una società che toglie la libertà ai propri membri, non è solo inutile, è anche dannosa. Ogni società, infatti, si costituisce unicamente per dare ai propri membri una maggiore libertà, una più ampia possibilità di azione, per consentire l’esercizio e l’applicazione delle facoltà creative, per dare spazio alla fantasia umana, per mettere in circolo le doti e le qualità degli individui.

 

 

c) La scelta

 

            Ma in cosa consiste la libertà? Su quali elementi l’essere umano si forma un giudizio che lo porti a scegliere il vero bene? Cosa può condizionare la scelta di ciò che è giusto e buono?

            L’intelligenza umana è la capacità di entrare nell’essere delle cose, di indagare nella loro essenza, di godere delle cognizioni raggiunte. Si tratta della conoscenza oggettiva, per cui l’essere intellettivo apprezza e gioisce di quel bene che vede e conosce nelle singole realtà.

            Tuttavia, il soggetto intellettivo non possiede solo una consapevolezza di sé, ma ha continuamente attivi tanto il sentimento di se stesso, come anche il sentimento corporeo.

            Come si è potuto già approfondire, l’essere umano è unico, ma vi sono costantemente presenti in lui l’intuizione dell’essere ideale, che lo abilita alla conoscenza oggettiva di ogni ente possibile, e il sentimento fondamentale, mediante il quale è in grado di percepire costantemente se stesso come singolarità, come essere unico e irripetibile, e di percepire l’estensione del proprio corpo, sentendolo come ‘proprio’. Questi due sentimenti vengono espressi nella loro fusione con il pronunciamento, con l’espressione “Io”. Mediante l’intelligenza l’essere umano prende coscienza dell’ordine oggettivo dell’essere; mediante il sentimento fondamentale partecipa degli oggetti che sono a lui presentati dai sensi, legandoli a sé affettivamente grazie al sentimento di appropriazione che gli consente di fruire e di godere dei beni materiali di cui può disporre.

            Possiamo così parlare di un ordine oggettivo, legato alla conoscenza speculativa e alla gioia per il possesso della verità, e di un ordine soggettivo, legato al piacere e al godimento dei beni temporanei e fisicamente percepibili. Nell’ordine soggettivo, l’individuo è spinto ad agire per soddisfare i propri bisogni, per procurarsi il piacere fisico, per raggiungere la felicità.

            Nel rapporto con le realtà create, l’intelligenza presenta gli oggetti come diversi da sé, con una loro determinata qualità, pregio e valore. Come essere razionale, l’individuo è necessariamente portato ad agire guidato dalla conoscenza che ha degli oggetti, dalla stima che ha posto su di essi, e di conseguenza di nutrire per loro un affetto intellettivo. In questa valutazione razionale degli oggetti conosciuti, due sono le opzioni: o di fare una stima giusta, o di dare un giudizio errato su di essi. Se la ragione umana non è influenzata da fattori esterni, condizionanti e fuorvianti, per sua natura sarà portata a riconoscere fedelmente ciò che già conosce degli oggetti, di dare una retta e giusta valutazione del loro pregio e valore, senza ingrandire e abbellire nessuno dei suoi aspetti, oppure senza sminuire in nulla la loro portata.

            Prendiamo il caso semplice di un dolce che al termine di un nostro pasto completo abbiamo deposto nel frigo di casa. Il dovere ci chiama al lavoro, ma l’attrazione per quel dolce si fa spazio tra i nostri pensieri.

            Nel processo in corso di valutazione e giudizio, da cui dipenderà poi il modo di rapportarsi a tale oggetto e determinerà quindi il nostro agire, potrebbe farsi strada il nostro istinto soggettivo del piacere, il quale pretende di essere corrisposto, ed esige di essere soddisfatto immediatamente dalla fruizione del dolce a nostra disposizione.

            A questo punto ci si trova ad un bivio: da una parte vi è l’ordine soggettivo che, insofferente e incapace di rinunciare ad un piacere immediato, reclama istantanea e urgente soddisfazione dei propri desideri; dall’altra vi è l’ordine oggettivo, che presenta una limpida, imperativa, imparziale, ma fredda, impassibile e inesorabile verità, perché il dovere del lavoro ci chiama senza offrire alcun allettamento e attrazione fisica e sensoriale.

È questo il momento di porre la stima pratica, cioè di porre quel giudizio che costringe a decidere, che spinge ad agire, che muove all’azione. Si tratta di una stima su cui poggiano gli affetti e i moti interiori dell’individuo, e che determina la scelta preferenziale.

            Se prestiamo ascolto al nostro cieco impulso che con prepotenza reclama una immediata, gratificante, attraente soddisfazione, nel definire la ‘stima pratica’ dovremo mentire a noi stessi, dichiarando che non possiamo esimerci dal nutrirci di quel dolce, e dovremo convincerci che quel dolce in quel momento non può farci che bene, e che il ritardo al lavoro dipenderà da una comprensibile motivazione. In questo modo anteponiamo un bene soggettivo, non necessario, a un bene oggettivo non dilazionabile, se non per giusta causa; e noi sappiamo che il dolce non è una giusta causa.

            Possiamo da questo concludere che se il soggetto presta ascolto al proprio cieco impulso che prepotentemente reclama una immediata piacevole felicità, nel definire la stima pratica, egli dovrà mentire a se stesso dichiarando alla propria coscienza che quei beni non corrispondono alla verità conosciuta, e non corrispondono alla conoscenza che offre l’intelligenza; egli dovrà in qualche modo disconoscere ciò che conosce perfettamente; nell’intimo saprà esattamente quale sia la verità, ma, al fine di soddisfare l’esigenza soggettiva, dovrà rinnegare la verità e convincere se stesso che le cose stanno diversamente da come dichiara la conoscenza oggettiva delle cose. Incisiva è a questo punto la conclusione del filosofo roveretano: «Questa terribile forza di dir falso al vero, di dir male al bene, di cancellare ai propri occhi quella entità che gli sta dianzi e che non può distruggere, di crearsi un idolo mostruoso e vano, è quella appunto che si dice forza pratica, è l’umana LIBERTÁ»[78].

 

 

d) Il fine assoluto

 

            Risulta chiaro a tutti l’importanza di riconoscere la verità, dato che nessuno desidera essere ingannato. Questo comporta la necessità di dare il giusto valore alle cose, al fine di poterle usare in modo adeguato e di sapersi muovere in corrispondenza alla realtà. È normale chiedersi se ogni ente da noi percepito, ogni elemento con cui veniamo a contatto richieda questo tipo di valutazione, ed esiga da noi una giusta stima proporzionata al loro grado nell’ordine dell’essere.

            Si richiede una prima essenziale osservazione. Va tenuto presente, infatti, che fra gli enti, cioè fra le realtà esistenti, ve ne è uno che possiede, racchiude in sé la pienezza e la totalità dell’essere: Dio è il bene assoluto, e in Lui vi è ogni esistenza e ogni sussistenza. Ogni altro ente esiste in quanto ha ricevuto essenza ed esistenza da lui, ogni realtà quindi è relativa a lui, per cui egli è il fine di tutti, tutto è finalizzato a lui.

            Questo porta come conseguenza il fatto che nulla può essere preferito all’essere assoluto, dato che in Dio è presente in ogni essere e ogni entità dipende da lui. Ne segue una considerazione di primaria importanza: se ogni cosa dipende dall’essere assoluto, anche la stima pratica nei suoi confronti deve essere assoluta; il che significa che la valutazione e il giudizio che si pone sopra ogni altro ente devono sempre essere relazionati e orientati all’essere assoluto, cioè a Dio.

            Tutti gli esseri in rapporto a Dio si dividono in due differenti classi: gli enti dotati di quoziente intellettivo e gli elementi privi di intelligenza. La natura dell’intelligenza è quella di congiungersi con l’essere, e quindi gli esseri intelligenti hanno per fine la pienezza dell’essere, cioè l’unione con l’essere assoluto.

            Dato che gli elementi privi di intelligenza non sono in grado di cogliere e unirsi all’essere diverso da sé stessi, essi sono ordinati e costituiti a servire agli enti intelligenti, ed hanno una esistenza relativa a questi.

            Da simili considerazioni si deduce che «gli enti intelligenti hanno un fine assoluto, poiché hanno l’essere assoluto per fine, e sotto questo aspetto si deve considerarli nella stima che si fa di essi. Gli enti non intelligenti all’opposto non hanno altro valore, che quello di puri mezzi»[79].

            Tenendo presente che la virtù richiede il riconoscimento della verità e che l’aspetto morale è sempre un atto della volontà che si adegua alla verità conosciuta dalla intelligenza, e in base alle precedenti riflessioni, si traggono due conseguenze: a) che la virtù morale ha il proprio fondamento nell’essere assoluto, cioè in Dio, perché ogni realtà è relativa a lui e quindi anche ogni stima pratica è relazionata al bene assoluto; e b) che la bontà morale della stima pratica esige che «il suo principio ed il suo fine sia un ente intelligente, cioè che sia un ente intelligente il soggetto che la fa, e sia un ente intelligente ciò che egli nella sua stima ha per oggetto»[80].

            Non è fuori luogo, a questo punto, ricordare che il Cristianesimo, nel proporre il concetto di Dio come santo e beato, lo presenta come il principio di ogni attività morale; la formula evangelica, infatti, espone il primo e massimo comandamento in una formulazione positiva, e non negativa. In questa formula, Cristo ordina ogni possibile attività, «anzi veramente comanda la massima attività possibile: chiama tutte le forze umane in movimento: “amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente. Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22)»[81].

 


DAL NATURALE AL SOPRANNATURALE[82]

 

«La virtù morale si riassume in questo semplice principio: “rispetta il fine della persona: non prenderla come mezzo a te stesso”. L’oggetto della virtù è dunque sempre la dignità della persona»[83].

 

 

a) Le potenzialità personali

 

            Per capire come la ‘grazia’ di Dio opera e agisce negli esseri umani, risulta di particolare sostegno la definizione di ‘persona che troviamo in Rosmini: «si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo, ed incomunicabile»[84].

            La persona è anzitutto un individuo ‘sostanziale’, cioè reale, concretamente e fisicamente esistente; non si tratta di una figura astratta, o di un prodotto della fantasia o frutto di una immaginazione creativa di qualche studioso o ricercatore.

            Questo individuo ‘sostanziale’ deve possedere la facoltà intellettiva, con la quale è in grado di conoscere i termini del mondo fisico ed è in grado di indagare nei meandri del mondo psichico interiore. L’intelligenza, si costituisce nell’essere umano mediante la acquisizione dell’idea dell’essere, attraverso la quale ogni individuo è abilitato a prendere conoscenza dell’universo esteriore e delle dinamiche della mente, della psiche e dell’inconscio umano. Dato che non vi è alcuna evidenza che l’idea dell’essere venga inserita in un momento particolare dell’esistenza umana, ne risulta che essa è innata, vale a dire che si riceve al momento del concepimento. L’intelligenza va annoverata come principio passivo in quanto essa riceve la verità, non la costruisce, non la crea, non la forma, ma è lei ad essere formata e modellata dalla verità che accoglie.

            L’intelligenza da sola, tuttavia, non qualifica ancora l’uomo come ‘essere personale’. La persona è tale in quanto il soggetto intellettivo possiede un’altra facoltà, una potenza che, a differenza dell’intelligenza, è attiva: questo principio attivo è la ‘volontà’, la quale è in grado di determinare e decidere il corso degli eventi, di modellare l’individuo interiormente ed esteriormente, di muovere e orientare la storia personale e quella sociale, di decidere sulle realtà materiali fuori di sé e sulle dinamiche spirituali dentro di sé.

            Questo principio è ‘supremo’, cioè superiore a qualsiasi altra facoltà, ed è in grado di sottomettere tutte le potenze naturali dell’uomo, può tenere sotto controllo le varie passioni, può comandare sopra le forze spontanee come la fame o la sete, la gelosia e l’invidia, la gioia e il dolore. Non vi è nell’uomo altra potenza o principio in grado di sovrastare la volontà e soggiogarla, se non per decisione della stessa volontà.

            E tale facoltà personale è ‘incomunicabile’, in quanto nessuno può decidere nella interiorità di un’altra persona. La ragione umana può riflettere, consultare, dialogare, ma la scelta resta unicamente alla volontà del singolo, il quale si trova sempre ultimamente con se stesso nella decisione definitiva. La responsabilità della propria scelta personale non è mai condivisibile. Ciascuno è responsabile della propria opzione individuale.

            Questa solitudine, segna però anche la grandezza e la maestà della persona umana. Infatti, il principio supremo attivo è alle dipendenze di un bene infinito che è la verità, alla quale la persona è continuamente interpellata e chiamata a uniformarsi. Mediante l’intelletto e la volontà il soggetto personale è reso capace di conoscere e ‘riconoscere’ l’essere delle cose, di aderire a ciò che è vero e di conformarsi all’ordine dell’essere, riveste la persona umana di una immensa dignità, a tal punto che si può affermare che nessuno «ha diritto di comandare a colui che sta ai comandi dell’infinito»[85]. La persona, quindi, possiede una individuale autonomia, che esige rispetto e amore da parte delle altre persone.

 

La dignità dell’elemento personale consiste unicamente in questo, che egli è quell’elemento, per il quale l’individuo può aderire con tutto se stesso alla verità, all’essere in tutta la sua pienezza contemplato oggettivamente. Da questa adesione di fatto all’essere oggettivo ed illimitato avviene, che la persona acquista una nuova nobiltà, si appaga, si bea, si completa. Un principio intelligente, che può aderire all’essere illimitatamente, per questa sola sua potenza, per questa sola sua naturale ordinazione già dicesi personale. Ma se dal semplicemente potere, egli passa anche all’aderire attualmente a tutto l’essere e a compiacersene, deve dirsi conseguentemente, essersi accresciuta e completata la sua personalità. In questo completamento della persona sta il bene morale, la virtù morale, la dignità ultimata, fin anche la beatitudine. Rispettare dunque la persona vuol dire non far nulla in contrario alla dignità personale[86].

 

            Ma in che modo, allora, la persona come soggetto libero e indipendente si unisce in società con altre persone?

 

 

b) Bene comune personale

 

            Rosmini si pone alla ricerca di quali siano i beni che tengono le persone unite in società, e giunge così alla conclusione che «ogni società si costituisce per la ricerca di un bene comune, nel quale convergono le volontà di più persone con il fine di goderlo tutto, o di trarne profitto»[87]. Da questo dato il prete roveretano scopre che ogni uomo porta con sé dei diritti connaturali, uguali in ogni persona, perché ogni essere umano ha come oggetto dei propri diritti tre beni che sono identici per tutti gli esseri umani, e questi beni sono «la verità, la virtù e la felicità»[88].

            Nessuna delle tre può mai essere considerata come proprietà privata o come bene esclusivo, esse infatti non sono esauribili, non sono cioè dei beni di consumo la cui scorta potrebbe terminare; e neppure sono circoscritte entro un tempo limitato o in uno spazio misurabile, circoscritto e ristretto, perché la loro indole è universale. Questi beni intellettuali e morali sono inesauribili dato che nessuna persona può considerarli come doni propri, individuali ed esclusivi[89].

            Inoltre, mentre per quanto riguarda i beni materiali, anche quelli considerati ‘inesauribili’, come lo spazio o l’aria, ciascun individuo non gode che una porzione di cui nessun altro può godere, per ciò che concerne i beni intellettuali e morali invece vanno riconosciute tre caratteristiche particolari:

1. Sono indiminuibili, cioè non subiscono alcuna diminuzione a danno di qualcuno, qualunque sia il grado di godimento di cui fruiscano gli altri uomini. La verità, ad esempio, nel momento in cui viene comunicata da un individuo ad un altro, non diminuisce di quantità o di qualità, e la stessa verità può essere diffusa e apprezzata contemporaneamente tra più persone, senza che essa venga a perdere la sua integrità e il suo valore.

2. Sono indivisibili, per cui ogni individuo non gode solo una porzione di essi, ma li possiede nella loro pienezza e totalità. Se prendiamo come riferimento la virtù, possiamo verificare che le persone possono nello stesso tempo crescere tutte nella stessa virtù senza che essa perda nulla, in nessun individuo, della sua completezza e della sua preziosità.

3. Sono identici, vale a dire che questi beni che vengono goduti da un individuo dell’umana specie, possono essere fruiti nella loro totalità da tutti gli altri esseri umani, in qualsiasi misura e in modo indefinito. Tenendo a modello la felicità, possiamo vedere che a motivo di un’opera d’arte o di una bellezza naturale, più persone possono sperimentare la felicità di godere di tali beni, senza che la loro gioia tolga nulla alla felicità delle altre, o venga diminuita dal fatto che altre persone sperimentino lo stesso identico estetico godimento.

            Inoltre i tre beni indicati sono peculiari della natura umana, infatti «la verità aderisce all’uomo e lo informa; la virtù è la perfezione della persona umana; la felicità è quello stato perfetto a cui tende incessantemente il sentimento essenziale dell’uomo, cioè la natura dell’uomo»[90].

            Tenendo presente che la verità «unifica gli individui umani »[91], si giunge alla constatazione che  tutti gli uomini, grazie all’idea dell’essere, giungono ad avere la stessa idea di ‘uomo’, e quindi sono in grado di riconoscere a tutti gli altri esseri umani la medesima natura. Dato che gli esseri intelligenti, comprendono la bontà della propria appartenenza al genere umano, essi giungono ad amare spontaneamente anche tutti coloro che fanno parte della stessa specie. In questo modo, «la verità conduce tutti gli uomini ad amarsi come una sola cosa; ed esige di essere essa stessa goduta dagli uomini in comunione»[92].

            Una volta dimostrato che l’umanità trova la propria unità nella condivisione della verità, si arriva a scoprire che anche la virtù non può che avere i medesimi effetti, cioè portare gli uomini ad una maggiore comunione e condivisione. Infatti, dato che la virtù è giustizia, la persona virtuosa «rispetta egualmente tutti gli uomini avendo tutti una uguale natura, ed allo stesso modo desidera che i beni supremi di questa natura siano comuni a tutti gli individui che la posseggono. In quanto poi è bontà, la virtù guida l’uomo a volere non soltanto per sé i beni maggiori, ma desidera che tutto il genere umano li possa possedere»[93]. Certamente, conclude l’abate trentino, non sarebbe virtù quella che pretendesse di possedere il bene solo per sé, e rifiutasse di condividerlo con gli altri.

 

 

c) Il ‘bene morale soprannaturale’

 

            A livello di fede, non si può ignorare che lo Spirito Santo è l’essenza stessa della santità, è la carità originaria, è «l’amor che move il sole e l’altre stelle»[94]; ma è anche colui che «informa l’anima»[95], e che pertanto opera nella volontà dell’essere umano.

            Con l’Incarnazione, non solo Dio si è fatto uomo, ma l’uomo diviene partecipe dell’essenza divina. In che modo? Non certo per una naturale capacità umana. È Dio stesso ad agire. Si tratta quindi di una azione soprannaturale che opera e muove le potenze naturali della persona umana.

            Per capirlo occorre avere chiara la distinzione tra l’essere uomo e l’essere persona. L’uomo possiede tutte le forze, le qualità e gli elementi presenti in natura, nel regno minerale, vegetale e animale. Il corpo dell’uomo subisce trasformazioni chimiche, obbedisce a leggi fisiche, si nutre di vegetali e la sua struttura psichica è soggetta a emotività e sentimenti che dipendono dalle relazioni con il mondo esterno o con il vissuto interiore. In tutto questo non vi è alcuna scelta da parte dell’individuo. Tutti questi eventi e trasformazioni possono avvenire senza essere ricercati o determinati da specifiche decisioni soggettive. E tutte si riscontrano, a livelli differenti, nella globalità dell’universo., quindi in natura.

            La persona umana, oltre a tutte queste naturali attività psico-fisiche, possiede – come si è visto precedentemente – due particolari potenze, due specifiche forze che lo differenziano da ogni altra realtà del mondo naturale: la persona è qualificata da una intelligenza ed una volontà, che le consentono di controllare, manipolare, trasformare se stessa, oltre a modellare la propria interiorità, il proprio corpo e il mondo circostante.

            L’intelligenza è in grado di ricevere la nozione, la conoscenza diretta di ogni singola realtà. Essa riconosce l’essere di ogni elemento con cui l’uomo viene a contatto, dando a ciascun ente la ‘forma ideale’, cioè formandosi l’dea corrispondente. L’uso di queste idee, il relazionarle tra loro, e lo sviluppare le loro insite potenzialità è opera della ragione umana, che consiste nello stadio successivo alla formazione e formulazione delle idee.

            Ma la persona umana possiede la seconda essenziale potenza, qualità, caratteristica, cioè la volontà.

            Mentre l’intelligenza è passiva rispetto alla verità, perché la riceve, l’accoglie, la conosce; la volontà è operativa, è essenzialmente attività.

            La volontà è il potere supremo che vi è nell’universo. Con la volontà l’uomo è in grado di comandare e governare la propria natura, di dare il giusto apprezzamento ad ogni realtà, di riconoscere e accogliere o rifiutare e negare la verità, di determinare le proprie scelte, e portare a compimento i propri propositi. La volontà consente all’uomo la possibilità di esercitare la propria libertà.

            In sintesi: l’intelligenza umana porta il soggetto alla conoscenza della realtà, la ragione aiuta l’uomo a comprendere il bene profondo inerente alla verità, la volontà permette di eleggere, preferire, riconoscere il bene a disposizione, ma è solo la libertà a compiere la scelta, a muovere la volontà ad agire per impossessarsi del bene conosciuto.

            In quale modo agisce la forza soprannaturale sulla persona umana? L’azione della grazia è unicamente sull’anima intellettiva, cioè non può che essere sulla parte più nobile e alta della persona, quindi su quelle potenze che garantiscono la libertà di pensiero e di azione , ma che oltretutto consentono al soggetto di poter entrare in una relazione di intimità con le persone divine.

            La realtà straordinaria del Cristianesimo risiede in questo, che Dio non è più solo e unicamente una entità trascendente, irraggiungibile e misteriosa, ma grazie a Cristo, Dio si è reso umano, in grado di relazionarsi personalmente con l’umanità.

            Le persone divine comunicano se stesse secondo la loro particolare identità. Per cui il Verbo, che – per usare le parole di Rosmini – è «l’intelligibilità dell’essere»[96], cioè è la “Luce degli uomini”, è la “Sapienza del Padre”, è la “Verità”, ha il compito di illuminare l’intelligenza, di renderla edotta delle verità del Cielo, di far conoscere i misteri del Regno; il Verbo, quindi, prende dimora nell’intelligenza della persona, agisce sull’intelletto del credente, opera nell’essenza dell’anima dove può comunicare la sua stessa sostanza e portare l’intelletto alla piena conoscenza della realtà di Dio e del mistero trinitario.

            Lo Spirito Santo ha il compito di muovere all’azione, di promuovere attività di bene, di suscitare attività, di mobilitare l’amore dell’amante verso l’amato. Lo Spirito agisce sulla persona umana e risiede nell’essenza dell’anima dove vi è la potenza della decisione, la forza della scelta, la determinazione dell’esercizio operativo, cioè nella volontà della persona umana.

            E come avviene per il Verbo, che nel Battesimo non comunica le sue qualità, ma comunica se stesso, così, nella Cresima lo Spirito Santo comunica la propria persona, l’entità del proprio essere, vale a dire che anche lo Spirito comunica se stesso.

            In questo modo, l’anima umana accoglie e riceve nell’intelligenza la Verità del Verbo, e nella volontà l’Amore attivo dello Spirito Santo[97].

 

 


IMPERATIVO ETICO E SOCIETÁ

 

«La giustizia consiste nel dare a tutti il suo; la virtù consiste nell’adesione della volontà all’ordine dell’essere. Chi non vive secondo quest’ordine, chi non dà a tutti il suo, è vizioso ed ingiusto»[98].

 

 

a) Cosa è Etica

 

            «Ma quale è la questione dell’Etica? – si domanda Rosmini nell’analizzare le deviazioni filosofiche del suo tempo – Non altra che questa, “che cosa sia la virtù in se stessa”; perché l’Etica non è che la scienza che tratta della virtù»[99].

            L’Etica, quindi, è la branca del sapere che pone la propria riflessione sulla virtù e, di conseguenza, sulle implicanze morali che la virtù porta con sé. Per essere più precisi, l’Etica è lo studio che definisce, con ordine, quali siano le norme alle quali le azioni e i comportamenti umani si devono conformare, e quale sia il vincolo e il legame che deve intercorrere tra le azioni e le norme. Se viene a mancare questa precisazione si corre il rischio di cadere nel tranello che ha portato alcune scuole filosofiche a capovolgere, dal Seicento ai nostri giorni, il significato sia della morale che della virtù.

            Il processo di alterazione della norma morale si è verificata quando alcuni orientamenti filosofici hanno perso di vista il significato stesso dell’Etica, la quale fondandosi sulla virtù ha bisogno di una verità oggettiva al fine di determinare il vero bene della persona umana. Al contrario, il soggettivismo filosofico ha portato a considerare la virtù morale unicamente in funzione della felicità individuale, senza alcun riferimento al valore universale e assoluto che la morale assume nel progresso e nella crescita della persona. I filosofi hanno iniziato a dichiarare che la virtù è un mezzo alla felicità, ignorando in questo modo l’essenza stessa della virtù, la quale da ‘fine’ è stata svilita a semplice ‘mezzo’, o – per fare uso di una efficace analogia del pensatore trentino – la virtù «è degradata dallo stato di signora a quello di vil fantesca». Questo svilimento, questa riduzione da nobildonna a meretrice, porta la falsa filosofia ad una altra e peggiore affermazione, secondo cui dall’asserzione che “la virtù è un mezzo alla felicità”, si passa a concludere che “la virtù non è che un mezzo alla felicità”. Nella prima dichiarazione – Rosmini fa notare – la virtù è dimenticata, ma nella seconda è addirittura negata, al puntò che non esiste più. In questo modo, tuttavia, anche l’Etica subisce una trasformazione concettuale, in quanto viene ridotta allo studio e alla ricerca della individuale e soggettiva felicità.

            Ma la disciplina che tratta il tema, l’indagine e la conquista della felicità come unico obiettivo del proprio studio è l’Eudemonologia, verso la quale Rosmini non risparmia la propria ironia. Per il Roveretano, lo scadimento della filosofia ha fatto assurgere l’Eudemonologia a maestra e guida della morale sociale, in un percorso di corruzione e ambiguità al punto tale che «dopo avere assassinata l’Etica, ne ha indossate le sue spoglie, e mentita l’apparenza»[100]. L’Eudemonologia ha cancellato i principi e i fondamenti della scienza etica, e presentandosi quale nuovo e principale modello di comportamento si dichiara come unica proposta morale per la società.

            Cosa spinge il filosofo roveretano a rivolgere accuse così pesanti nei confronti delle filosofie soggettivistiche del suo tempo?

            Il Sensismo, nel Settecento, viene sviluppando un sistema filosofico in cui la conoscenza non è fondata sulla capacità intellettiva della persona, ma unicamente sulla recezione dei sensi dell’essere umano. Questo comporta come conseguenza che il riconoscimento del vero bene della persona non risiede più nella accoglienza e nel godimento della verità, ma al contrario, l’obbiettivo primario consiste ora in ciò che i sensi somministrano, richiedono ed esigono. In questo modo il bene dell’uomo, e quindi anche la morale, viene a identificarsi con il mondo sensitivo. È il piacere a divenire il fine della conoscenza, mentre l’utilità si erge a principio della morale. La persona ha perso la sua centralità nello stesso studio umano, e i beni del corpo, le esigenze fisico-naturali divengono il criterio individuale di comportamento, e sono assunte come principio filosofico strutturale, per essere poi riposte alla radice di ogni valutazione morale.

            Questo procedimento accademico, oltre ad una grande deformazione del metodo filosofico, ha portato le false discipline etiche a capovolgere e a rendere impossibile l’identificazione, l’evoluzione e il riconoscimento del vero bene morale. Dalla loro distorta concezione morale esse hanno eliminato uno o più elementi che formano l’essenza della moralità e che sono i seguenti:

            «1° La verità, la quale nella morale si presenta come legge.

            2° La conoscenza che consente all’uomo di conoscere l’essenza delle cose, dando loro il giusto peso, e consentendo di agire in base alla retta valutazione posta su di loro.

            3° La volontà, cioè una volontà libera, che possa guidare e determinare il giudizio che l’uomo pone sulle cose conosciute.

            4° E finalmente l’ente assoluto, che deve ricevere il valore di fine, mentre tutte le altre cose devono essere riconosciute come mezzo, affinché il giudizio sia compiutamente morale»[101].

            Questi principi aiutano a cogliere l’azione del Cristianesimo sulla società. La fede cristiana, infatti, ha illuminato la coscienza e la cultura delle varie società, in primo luogo, facendo conoscere che l’uomo, dopo il peccato originale, ha bisogno dell’aiuto di Dio per poter giungere ad essere giusto e per potere così compiere il bene morale; in secondo luogo, portando le persone a capire che il bene morale è il solo vero bene dell’uomo, e che ad esso si deve orientare e sottoporre ogni altro bene.

 

 

b) Etica come scienza

 

            È da tutti riconosciuto il fatto che l’uomo debba essere buono e non cattivo. Ed è altrettanto evidente che «la bontà dell’uomo consiste nella bontà della sua volontà»[102]. Perché colui che vuole il bene e lo compie è un uomo buono.

            Questa constatazione consente di dedurre che una cosa è la bontà dell’uomo, e altra cosa sono le cose buone che l’uomo fa o usa; per cui se a rendere l’uomo buono è la sua volontà, tutto ciò che non è inerente alla volontà dell’uomo, non può essere considerato parte della bontà dell’uomo stesso.

            La bontà dell’uomo – ma non la bontà delle sue cose – prende il nome di bontà morale. Quella qualità, quella caratteristica della volontà umana in forza della quale l’uomo è buono, si definisce bene morale, o meglio bene onesto.

            Ora l’Etica è la scienza che ha come oggetto del proprio studio il bene onesto, ossia il bene morale.

            È molto più facile stabilire quali siano le cose buone per l’uomo, ma che di per sé non rendono ‘buono’ l’uomo, che non definire il ‘bene onesto’, la cui presenza tuttavia è necessaria e indispensabile affinché l’uomo possa essere riconosciuto ‘buono’.

            Infatti, si può palesemente dichiarare che tutte le cose che l’uomo è in grado di possedere, conservando contemporaneamente una cattiva volontà, non possono essere considerate parte del bene morale.

            Per cui le ricchezze, le proprietà, i grossi capitali non costituiscono la bontà dell’uomo, in quanto anche una persona malvagia li può con abbondanza possedere.

            Neppure la forza politica o il potere sociale che consentono di governare sulle altre persone rendono l’uomo buono e migliore, infatti sia il forte che il potente possono essere guidati da una cattiva volontà.

            La bellezza, un corpo atletico, le doti fisiche non rendono l’uomo buono, perché tutte queste positive qualità possono trovarsi anche in una persona che vuole e cerca il male degli altri.

            Le capacità intellettive, l’astuzia, l’immaginazione, la stessa scienza non rendono l’uomo buono, perché non sono elementi che appartengano alla volontà, e a volte sono doti di cui l’uomo buono è carente, mentre le possiedono con abbondanza coloro che hanno una volontà malvagia.

            In ultimo, la gloria, la fama, la celebrità non rendono l’uomo buono, sia perché non sempre la lode viene data a chi realmente la merita, sia perché le persone, pur di ottenere il proprio scopo, fingono di essere buone, senza minimamente migliorare e rendere buona la propria volontà.

            Ora non si può negare che tutti questi beni siano anche dei beni molto utili, appetibili e vantaggiosi, ma non vi è alcuno tra loro che possa essere considerato un bene morale.

 

 

b) Riconoscere il ‘bene morale’

 

            In cosa consiste il bene morale? È un atto del pensiero o un atteggiamento pratico. Il bene morale si identifica con la bontà della persona. Da qui comprensibile la domanda: quando una persona è ‘buona’?

            Un definizione precisa aiuta a dissolvere ogni dubbio: «Il bene morale è nelle azioni: certamente, in tutte le azioni volontarie»[103]. Come si può constatare, un pensiero benevolo verso il prossimo, un progetto spirituale, un sano e santo proposito di bene non possono essere considerati un ‘bene morale’. Tutte queste proposte rientrano in ciò che possiamo definire ‘ordine razionale’, vale a dire che la persona umana indaga, stabilisce e può auspicare la realizzazione di un qualche bene generoso e caritatevole, ma tutto questo è una ricerca intellettiva, è un approfondimento mentale sulla conoscenza di ciò che è bene e buono; si tratta solo di una riflessione su quanto debba essere considerato moralmente accettabile e pertinente al bene.

            Il ‘bene morale’ non è un atto del pensiero, ma consiste in una azione concreta, in un atto pratico, in un comportamento fisicamente visibile e attivo. Va in ogni caso precisato che non ogni azione, attività o comportamento, solo perché sono attuazioni pratiche ed esercizi concreti possono essere considerati ‘bene morale’. Un primo fondamentale requisito richiede che tutte queste realtà, cioè l’operare della persona umana sia volontaria, e sia così frutto di una determinazione cosciente e ragionata. Questo perché l’agire dell’uomo è volontario quando la decisione e l’azione sono preceduti dall’intelligenza. La volontà infatti è una potenza che per operare ha bisogno di un ‘principio di ragione’, di una valutazione razionale che motiva l’essere umano ad entrare in azione e a mobilitare se stesso ad una determinata impresa.

            Da tutto questo si può dedurre una logica conseguenza: «Se dunque la morale consiste nelle azioni volontarie, la morale suppone una regola precedente nella ragione, che sia la norma dell’operare»[104], che sia cioè la legge a cui si deve conformare l’azione e l’attività dei singoli soggetti.

            Questa norma che precede e guida le azioni morali, non può che essere una razionale, perché deve poggiare e sostenersi sulla ragione, non certamente sul sentimento o sulla sensitività. Questa norma prende così il nome di ‘legge morale’: essa ha il compito di specificare dove risieda e in cosa consista il ‘bene morale’. Ma tale norma non è che una condizione, un elemento, un settore nel procedimento della morale umana, sebbene, va tenuto presente si tratta, in ogni caso, di un aspetto essenziale in quanto «la moralità consiste in una relazione della volontà con la legge morale»[105].

            Questa chiarezza di spiegazione aiuta ad evitare due tendenze di pensiero che falsificano la verità sul ‘bene morale’.

a) Coloro che identificano il bene morale con la legge morale, dimenticano l’aspetto pragmatico e concreto del bene morale e sono quindi portati a considerare la morale unicamente come un processo razionale del pensiero, escludendo i comportamenti e le azioni concrete e reali.

            Questo aiuta a capire perché non sono sufficienti le leggi di un Parlamento per rendere morale una società, ma si richiede che queste leggi vengano ‘promulgate’ dagli stessi cittadini, vengano cioè rispettate e applicate dai singoli membri del corpo sociale.

b) Quanti poi escludono dalla morale l’aspetto speculativo, e concentrano ogni valenza morale esclusivamente nelle azioni e nelle operazioni fisiche dei soggetti, devono, come conseguenza, eliminare la priorità della ragione e della stessa volontà, riducendo ogni iniziativa e ogni principio attivo degli individui, solo e unicamente nelle mozioni dei sentimenti e nel flusso emotivo ed empatico dell’essere umano. Si coglie immediatamente che, in questo caso, il bene morale verrebbe continuamente identificato con le esigenze ed i bisogni individuali senza tenere in alcun conto il diritto universale e il bene oggettivo delle altre persone.

            Vale la pena tenere presente anche un’altra distinzione, che consente di riconoscere due parti differenti, due gradualità nel bene morale.

            Il primo grado richiede una volontaria adesione alla verità; tale adesione permette di scoprire un ordine prestabilito nel rapporto tra le varie composizioni dell’essere umano. Non vi sono solo diverse facoltà, forze differenti e diversificate potenzialità nella persona – come le qualità intellettive e razionali, le capacità sensitive, gli impulsi fisiologici, gli istinti – ma vi è tra queste stesse forze un ordine e una gerarchia di valore e di funzioni.

            Il secondo grado aiuta a capire che vi è il riconoscimento di un merito, di un pregio a colui che si impegna e si sforza di aderire ordinatamente alla verità e di sottomettere quindi ad essa anche ogni potenza naturale, sensitiva e animale presente nell’uomo[106]. Vivere onestamente, l’essere buoni e fare il bene porta con sé dei concreti benefici per la persona, dato che fa crescere l’autostima, conserva la pace nel cuore e procura la gioia nell’animo.

            Perché la volontà qualifica e rivela l’unicità e l’energia decisionale della persona umana? Perché tutto ciò che appartiene alla moralità ha la sua sede nella volontà; e tutto ciò che ha attinenza con il bene della persona ha la propria sede e valore nella sfera morale, quindi è possibile concludere che «la santità, la carità, tutto ciò che vi è di morale insomma ha la sua sede nella volontà»[107].

 


LE VIRTÚ TEOLOGALI

 

«Le virtù che riguardano Dio, e che sono comandate dai precetti del Salvatore, sono la Fede, la Speranza e la Carità, e queste si chiamano le tre virtù Teologali, appunto perché hanno Dio per oggetto»[108].

 

 

a) Fede

 

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, la fede, sulle orme del Catechismo di san Pio X, viene descritta come «la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede “l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 5]. Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. “Il giusto vivrà mediante la fede” (Rm 1,17). La fede viva “opera per mezzo della carità” (Gal 5,6[109].

            Questa definizione è particolarmente elaborata, e si può leggere tra le righe la dinamica ecumenica che sta sottesa a tutta la formulazione.

            Anche Rosmini ha redatto un Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, dove sinteticamente offre una sua definizione: «Che cos’è la fede? La fede è quella virtù soprannaturale, per la quale noi ci uniamo a Dio col credere fermamente in lui, e a tutto ciò che egli ha rivelato agli uomini»[110]. La brevità non è a scapito della chiarezza, ed è perfettamente in linea con quanto viene espresso nell’attuale Catechismo della Chiesa .Ma Rosmini elabora il contenuto in una modalità differente, e la sua riflessione sul il tema della fede trova continui sviluppi e approfondimenti sia nei suoi lavori filosofici, come anche quelli teologici.

**)       Una approfondita indagine fa rilevare la differenza che intercorre tra la fede naturale e la fede soprannaturale. La prima è puramente speculativa, è una fede ‘intellettuale’, è l’esigenza umana di ricercare i principi che stanno all’origine dell’universo, è il tentativo, in ambito religioso, di arrivare – data l’impossibilità e l’incapacità umana di poter asserire e dimostrare positivamente la reale entità dell’Ente supremo – almeno alla formulazione di ‘affermazioni negative’ su Dio, e giungere a dichiarare ciò che Dio ‘non è’, senza mai poter affermare ‘cosa’ o ‘chi’ realmente sia l’Essere divino.

            La seconda, la fede soprannaturale è in primo luogo una azione di Dio nell’animo umano, è un suo donarsi nell’intimità, venendo così a costituire nella persona una nuova dimensione, per cui è la vita divina che irrompe nella natura umana, permettendo così la percezione, l’incontro, la proposta e la risposta di amore tra l’uomo e Dio.

**)       Questo aspetto richiama un’altra importante distinzione, quella tra teologia e religione. La teologia è scienza, e la religione è azione; la prima è conoscenza teorica, la seconda è culto; la teologia appartiene alla teoria, la religione è invece un esercizio pratico della vita di fede. Per cui «il teologo è quello che conosce le dottrine intorno a Dio; ma l’uomo religioso è quello che conforma la vita a tali dottrine, ed è assiduo nel mettere in pratica il culto a Dio»[111]. Da questo si può dedurre che non necessariamente il teologo sia anche un assiduo fedele praticante, né che un credente, costante nel pubblico culto, sia contemporaneamente un valido teologo.

**)       Altro dato importante riguarda il rapporto tra ragione e fede. Le due conoscenze non sono incompatibili tra loro, anzi esse sono «i due elementi inseparabili dei popoli civili»[112].. Queste due potenze non possono essere considerate in contrapposizione, dato che nella ragione umana vi è la ricerca costante delle verità naturali, le quali, avendo la loro origine in Dio creatore, non possono essere in contrapposizione con la teologia cristiana, la quale professa la verità rivelata dal medesimo Dio creatore e salvatore. È la stessa religione cattolica ad insegnare che «quando una religione qualunque venisse a trovarsi in contraddizione con i principi della ragione, o con le loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione»[113].

            Non è superfluo riprendere alcune esposizioni: la filosofia è la scienza che indaga le ragioni ultime del creato, per cui la filosofia ha bisogno di un ragionamento esplicito, di una riflessione che sia in grado di investigare entro le cognizioni empiriche per poi inoltrarsi nei meandri del pensiero astratto e metafisico. La filosofia richiede un assenso, un riconoscere la verità che viene colta dalla intelligenza, la quale, dalla percezione delle cose, deduce la loro idea. Le idee consentono la perfetta conoscenza sia del mondo concreto, come anche delle astrazioni logiche e teoriche a cui giungono le varie discipline umane.

            Anche la fede è un volontario assenso; è un assenso a ciò che Dio ha rivelato e, pertanto, a buon diritto, si può dire che essa si fonda sull’autorità di Dio. Ma mentre la filosofia richiede un semplice assenso speculativo, senza necessariamente esigere alcuna applicazione alla vita concreta delle verità conosciute; la fede, al contrario, è un giudizio pratico, che ci consente non solo di affermare la percezione di Dio e delle cose divine, ma ci motiva a dare a Lui la nostra ‘stima’. Questa, a sua volta, muove la nostra volontà a conformare i nostri atteggiamenti e comportamenti agli insegnamenti e alle verità divine rivelate. Bisogna allora dedurre che la fede è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato, che si concreta nel ‘riconoscimento’ volontario di Colui che si è fatto liberamente conoscere, e dal quale ha inizio nell'uomo ogni moralità.

**)       Il rapporto fede-ragione, suggerisce anche alcune analogie. Tra queste, quella più evidente è il processo conoscitivo che si realizza nei due eventi e che aiuta a chiarire il motivo per cui non si possa parlare di fede cieca[114].

            La ragione opera mediante due funzioni: la percezione e la riflessione. La riflessione è determinata dalla relazione delle idee conosciute tra di loro, e quindi da un percorso logico dei ragionamenti che sfocia nelle scienze dimostrative. Ma ogni riflessione esige che ci sia in primo luogo la percezione di tali oggetti su cui si riflette. Percezione significa che nel momento in cui i nostri sensi vengono a contato con un oggetto materiale, la nostra mente opera un atto di individuazione, e, potremmo dire, di alta definizione al punto da formarsi immediatamente l’idea dell’oggetto in causa. «La percezione è una funzione semplice, immediata colla quale il nostro spirito percepisce a primo tratto gli oggetti che a lui vengono presentati»[115]. La percezione, dunque, non ha bisogno di ragionamento, e neppure di alcuna riflessione previa, dato che si basa sull’evidenza, ed è proprio tale evidenza ad essere il principio della dimostrazione. Nessuno può contestare ciò che i vostri occhi stanno leggendo, anzi proprio la percezione della scrittura dinnanzi a voi vi consente di approvare o rifiutare il contenuto presente nel testo. Nessuno deve dimostrare a voi stessi ciò che fisicamente state sentendo, per cui «se la percezione manca di dimostrazione, non si deve per questo dire cieca, né escludere dalle funzioni ragionevoli; giacché essa è anzi la prima delle funzioni ragionevoli, ed è quella che somministra la materia e il contenuto a tutte le operazioni della riflessione»[116]. La conoscenza immediata, antecedente alla riflessione, che la persona acquisisce delle cose reali, non può essere accusata di cecità; caso mai è il contrario, perché è grazie alla percezione sensitiva e intellettiva che ogni essere umano è in grado di vedere e pertanto di conoscere con chiarezza la realtà del creato.

            Tenendo presente le debite differenze, lo stesso procedimento avviene nella conoscenza che si acquisisce per fede. Mediante la fede, lo spirito del credente è in grado di percepire immediatamente e senza mediazione alcuna la presenza di Dio dentro di sé. Questa rivelazione interna di Dio, dato che si tratta di una percezione diretta, non ha bisogno di alcuna dimostrazione. Il credente non ha bisogno di qualcuno che gli dimostri la propria relazione immediata con Dio, perché si tratta di un’azione interiore che solo il credente è in grado di sperimentare, cogliere e verificare. Ma proprio grazie alla percezione, non si può parlare di una fede ‘cieca’, anzi si tratta di una certezza ‘evidente di per sé’ e inoppugnabile. Difatti, essendo Dio la Verità, non sarebbe conforme all’Essere di Dio, una relazione con lui che fosse cieca, temeraria e irragionevole. Il Roveretano, non perde occasione per esprimere una personale valutazione su quanti accusano la fede cattolica di oscurantismo, perché – sottolinea – «è vero che chi non ha mai sperimentato questa percezione non la può capire; e questa è la ragione perché i filosofi del secolo sono pronti a negarla, e a dichiararla stolta, e frutto d'un cieco e superstizioso entusiasmo»[117].

**)       La fede, è necessaria alla salvezza, ma in sé, la sua presenza nella vita di una persona non è indice immediato, sicuro e certo di santità. Rosmini fa notare come la fede si può trovare anche in un essere umano privo della grazia santificante, anzi, la Sacra Scrittura asserisce che “anche i demoni credono” (Gc. 2, 19)[118]. Questo porta la Scrittura a parlare di una fede viva e una fede morta[119].

            La Scrittura ci aiuta a chiarire che «l'oggetto della fede e quello della grazia santificante è il medesimo, perché è sempre Dio; ma rispetto alla fede è Dio soprannaturalmente conosciuto, rispetto alla grazia è Dio soprannaturalmente amato».[120]. Infatti l’ordine soprannaturale inizia quando la persona riceve l’essere non più sotto forma ideale, cioè con l’idea dell’ente conosciuto, ma nella forma reale e morale. Questo, ovviamente, avviene mediante i sacramenti.

            Una tale comunicazione si realizza in quanto il Verbo comunica se stesso al credente, e dato che il Verbo è ‘luce dell’anima’, egli comunica se stesso al sentimento intellettivo, vale a dire che pone nell’anima umana la presenza reale di se stesso nel suo potere specifico di rivelare le verità soprannaturali. A questo punto, però, «non basta che l'intelletto sia illuminato perché l'uomo possieda la grazia. Conviene di più che il lume dell'intelletto diventi pratico, cioè produca un abito della volontà: quest'abito è la grazia santificante»[121]. Questa luce dell’intelligenza soprannaturale non solo dispone al bene la volontà, ma forma una ‘abitudine’, quindi una virtù al bene, a condizione però che la stessa volontà non si opponga, dato che chiaramente si tratta di una volontà libera, e quindi la persona può usare della sua libertà per negare il proprio consenso a ciò che riceve dalla luce soprannaturale.

            Notiamo come sia coloro che danno il proprio assenso alle verità rivelate, quanto coloro che lo negano, ambedue percepiscono e ricevono nella propria mente la dottrina rivelata, ed allo stesso modo sono in grado di capirla e di porre su di essa un giudizio valutativo: trattandosi di accoglienza della verità, sarà un giudizio meritevole per coloro la sapranno riconoscere e vi si conformeranno nel proprio agire, sarà a loro demerito per quanti svilupperanno un giudizio negativo e sfavorevole[122].

            In cosa consiste allora la fede viva? Lo si comprende seguendo con ordine tutti i passi dello spirito umano che precedono, costituiscono e seguono l’atto di fede. Nell’animo delle persone, infatti, vi è una dinamica tutta particolare anche nella ricezione e adesione alla verità soprannaturale, come si può capire dal percorso ordinato[123] che lo illustra:

1º Ascolto, acquisizione e assimilazione della Parola rivelata

2º Percezione di Dio, che avviene nell’animo umano, grazie all’azione della luce che proviene dalla conoscenza rivelata (misteriosa per la comprensione naturale).

3º Sentimento conseguente, che consiste nella gioia soave e sublime che sgorga da quella percezione e che ci persuade della verità delle cose percepite.

4º Come conseguenza di questo sentimento, entra nell’animo l’impulso e la forza che spinge a credere e ad agire santamente.

5º Atto di fede volontario, vale a dire, un giudizio pratico sulla verità e sulla eccellenza delle cose conosciute e percepite. Si tratta della ‘stima’, cioè della consapevole approvazione e attuazione delle realtà soprannaturali ricevute.

            È opportuno ricordare che la ‘stima’ consiste nel riconoscimento di Dio come luce, verità e autorità infinita; se con la sua deliberata volontà l'uomo non rifiuta questo atto di stima, allora egli accetta la relazione di amore con Dio e non esita a dimostrare questa comunione, mediante azioni sante e meritorie, che rendono viva la sua fede, come si può vedere a seguire.

6º La persona risponde con l’amore all’amore di Dio, come conseguenza di quell'atto di stima pratica.

7º Atteggiamenti e comportamenti santi che rivelano e realizzano la risposta di amore del credente.

            Come si può verificare, «l'uomo non comincia a operare con la sua volontà se non al quinto passaggio, con il dare il proprio consenso [‘stima’] alle verità esteriormente rivelate e interiormente sentite: per questo si dice che la fede è il primo atto della grazia»[124]. Alla luce di questo prospetto antropologico soprannaturale, si arriva ad altre due conclusioni:

α) Nella prima si deduce che «la fede è il principio della morale cristiana, cioè il suo primo atto»[125]. Tenuto presente che, sul piano naturale, la morale è la conformazione dell’ente ideale all’essere reale; così, in chiave soprannaturale, la fede è l’assenso della persona alla rivelazione del Verbo, che – come visto – fa conoscere la comunicazione amorevole e infinita di Dio all’uomo.

β) Nella seconda si chiarisce quali siano le caratteristiche distintive di una ‘fede viva’: «Le opere buone dunque, la carità che le produce, e quel giudizio pratico che è il principio della carità sono i tre caratteri che accompagnano sempre la fede viva e soprannaturale»[126]. La fede non è riducibile a semplici stati emotivi, ma è sempre un procedimento che porta la persona dalla razionalità, al desiderio del bene e da qui alla carità in atto.

            Il Catechismo della Chiesa Cattolica, sempre in riferimento alla lettera di Giacomo, ribadisce che «“la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26): se non si accompagna alla speranza e all'amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo Corpo». Da questo possiamo dedurre che le virtù non si muovono autonomamente e isolatamente. Il credente che pratica con sincerità di cuore una delle tre virtù teologali, vive necessariamente e contemporaneamente anche le altre due.

 

 

b) Speranza

 

            Il Catechismo della Chiesa Cattolica lega direttamente la virtù della speranza al desiderio di felicità degli esseri umani. Dopo avere definito la speranza come «la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo»[127], ribadisce che «la virtù della speranza risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo»[128].

            Per ciò che riguarda il rapporto tra la virtù e la felicità, il filosofo di Rovereto richiama ed esamina una massima stoica secondo la quale i beni che non dipendono dalla libertà umana, l’uomo non li può dichiarare di sua appartenenza, ma deve considerarli estranei alla propria persona. Da questo gli Stoici traevano queste conseguenze: a) o l’uomo non è in grado di possedere alcun bene e che quindi la sua felicità è impossibile da realizzare, b) oppure, la felicità è legata alle cose che dipendono dal suo libero volere, per cui, nell’ordine della natura, l’unica cosa a dipendere realmente dalla libertà umana è la virtù.

            Purtroppo l’esperienza insegnava loro che prendere in esame i soli atti liberi delle persone, staccati dagli oggetti reali, non consentiva di giungere ad alcuna idea di felicità. Rimaneva così aperto il problema in quanto 1) la felicità era tale solo se fosse di appartenenza dell’uomo; ma 2) tutto ciò che l’uomo poteva dichiarare ‘proprio’ erano solo i suoi atti liberi, i quali, però, non trovavano nella natura alcun oggetto che fosse un bene assoluto, in grado di dare loro una dignità superiore, e del quale nessuno potesse espropriarli. Dal momento che questi atti erano privi di un oggetto da raggiungere, si rivelavano incapaci di offrire all’uomo un sommo bene, e pertanto erano completamente vuoti di qualsiasi valido contenuto.

            Gli Stoici, in altre parole, riconoscevano che solo la virtù dipendeva dalla libera volontà dell’uomo, ma dato che essi legavano la felicità ad un contenuto materiale, mentre la virtù offriva un bene assoluto, ne seguiva che l’uomo non era in grado di raggiungere né la virtù e neppure la felicità. Restava loro solo la triste conclusione che per l’uomo la felicità era impossibile da raggiungere e realizzare.

            È a questo punto che Rosmini introduce la propria riflessione, evidenziando che l’unica soluzione possibile è la risposta razionale che offre il Cristianesimo. La sapienza cristiana propone alla libertà umana un oggetto che non si trova in natura. La sua acquisizione dipende unicamente dal credente, mentre non vi potrà essere alcuna forza terrena in grado di espropriarlo dal momento che questo bene assoluto e completo è Dio stesso. L’uomo può perdere qualsiasi altra realtà o per cause naturali, o per la malvagità umana, ma nessuno può privare l’uomo di Dio, a meno che non sia l’uomo stesso a volerlo abbandonare.

            Rimane aperto il problema del rapporto tra la virtù e la felicità, rapporto non risolto dalla filosofia speculativa, ma che il Cristianesimo dichiara compatibili. La soluzione risiede nel fatto che nell’insegnamento cristiano Dio stesso è il solo oggetto della virtù, ma anche il solo oggetto della felicità. Occorre tenere a mente che la virtù corrisponde all’atto morale mediante il quale l’uomo è in grado di riconoscere gli esseri nella loro reale entità, e di rispettarli per ciò che essi sono. Ne segue che dal momento che Dio è l’Essere di per sé, in lui ha origine e sussiste ogni altro essere; per questa ragione in lui e per lui si devono apprezzare tutte le altre cose, per cui si può senza esitazione affermare che «il riconoscimento pieno di Dio è tutta la morale cristiana»[129]. Del resto, il prossimo stesso si ama in Dio e per Dio, dato che anche le entità personali vanno amate per quello che sono, ma sempre relativamente a Dio.

            Bisogna ora prendere in considerazione l’atto ultimo e perfetto della comunione piena tra l’uomo e Dio, dove si realizza la virtù perfetta, e la perfetta felicità, in ciò che nel linguaggio cristiano si chiama beatitudine eterna. «In quest’ultimo atto – infatti – Dio è la forma dell’intelligenza umana»[130], vale a dire che Dio è realmente e stabilmente percepito dall’uomo, il quale volontariamente riconosce l’essere infinito di cui ha percezione – e questa è la virtù –, a cui segue, come logica conseguenza, l’amore, cioè la fruizione, il godimento dell’essere assoluto, cioè la beatitudine – e questa è la felicità –.

            Il Cristianesimo, che sancisce questa unione tra la virtù e la felicità nel Regno dei cieli, ricorda tuttavia che sulla terra tra le due non vi può essere un pieno accordo, tanto da dover «ammettere la loro disunione»[131], sancita dalle stesse parole di Gesù “beati quelli che piangono” (Mt 5,5). Questa separazione tuttavia ritrova la propria unità sulla terrà grazie alla virtù della speranza, perché sebbene la speranza conservi il suo slancio escatologico, nondimeno la sua azione è già attiva nel presente cristiano, nella storia quotidiana, come lascia intendere Paolo con la sua esortazione «siate lieti nella speranza» (Rm 12,12).

            Il filosofo di Rovereto, trattando del ‘principio della morale’, cita la sentenza di Seneca, dove si dichiara che la virtù non lascia nell’animo alcuno spazio vuoto che non sia soddisfatto, per cui, occupando la virtù tutto il cuore umano, ogni altro desiderio non ha più influenza alcuna, e quindi non stimola né molesta la quiete raggiunta. Si può così dedurre che il giusto «nella speranza gode già il bene infinito, che le conviene»[132].

            Va sempre tenuto presente che il giusto sulla terra, se da una parte condivide con i beati i beni soprannaturali del cielo che nessuno può sottrarre dal suo animo, dall’altra si trova a trattare con tanti altri beni naturali che non dipendono dalla sua volontà in quanto possono essere loro sottratti o dalla natura, o dalla malizia altrui.

            Quali sono, in ogni caso, i beni della vita presente che nessuno può sottrarre al giusto? Il giusto può liberamente e personalmente possedere la verità e la giustizia, quindi Dio con i suoi beni interiori e la giustizia con i suoi beni esteriori. Solo il giusto, risulta chiaro, può apprezzare infinitamente questi beni, e li può godere anche quando viene a trovarsi tra i tormenti e le sofferenze della vita. Il giusto infatti vive di quella gioia e di quella pace interiore che nessuno è in grado di sottrargli. Usando le parole del Manzoni, si potrebbe dire che il giusto possiede la «Pace che il mondo irride / ma che rapir non può»[133]. In modo appropriato si possono affiancare le parole del Sommo Pontefice Benedetto XVI che nella Spe Salvi tiene a precisare che «la redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino»[134].

 

 

c) Carità

 

            La particolare rilevanza che nella Chiesa e nella società viene ad assumere il significato della carità trova una lucida enunciazione nell’enciclica Deus caritas est: «L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi»[135].

- Cosa è Carità -) Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo la definizione della carità come «la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio»[136], il testo tiene a evidenziare che «Gesù fa della carità il comandamento nuovo (Gv 13,34[137].

            Rosmini, nell’esposizione del suo Catechismo, si accosta al tema con una modalità leggermente differente, sottolineando in primo luogo che la carità «è quella virtù soprannaturale, per la quale noi ci uniamo a Dio coll’amarlo come il bene essenziale, il sommo bene, e il fonte di tutti i beni»[138]. L’attenzione è quindi posta in primo luogo nella mistica unione tra l’anima e Dio, che – come abbiamo visto – rappresenta il “dogma principale e fondamentale del Cristianesimo”[139]. Nell’articolo seguente, l’autore risponde alla domanda: «In quanti modi dobbiamo noi amare Dio?», specificando che «noi dobbiamo amare Dio in due modi, cioè, dobbiamo amare Dio in se stesso, e dobbiamo amare Dio nel prossimo nostro»[140].

            Da queste definizioni risulta che l’essenza della carità è l’unione mistica con Dio, mentre l’amore al prossimo è una delle modalità di amare Dio. Dio infatti è l’amore primario, ‘essenziale’ e fondativo di ogni altro amore. L’amore al prossimo, al contrario, è relativo a Dio, è secondario rispetto all’amore a Dio, sia da un punto di vista temporale, come anche da un punto di vista logico. L’aspetto temporale è comprensibile perché il ‘prossimo’ non potrebbe esistere, se non vi fosse prima l’atto creativo di Dio. Per capire la priorità logica invece potremmo ricordare che l’origine dell’amore umano ha la sua sorgente nell’amore di Dio, o come dice la Scrittura, “Noi amiamo, perché egli (Dio) ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19), inoltre va tenuto presente che l’identità di Dio, la sua costituzione, la sua stessa sostanza consiste in questo che “Dio è amore” (1 Gv 4,8).

            Come agisce la carità nell’essere umano? La carità è tale se promana dalla libertà della persona dato che «l’uomo che ha veramente in sé l’amore vuole ogni bene, perché vuole solo il bene, e così vuole il bene che c’è in Dio, il quale è bene senza attributi, e vuole il bene che può esserci nell’uomo, per qualità e partecipazione»[141].

            È opportuno sottolineare come non solo l’amore di Dio precede e genera l’amore del prossimo, ma che la risposta umana deve considerare l’amore a Dio prioritaria e antecedente rispetto all’amore al prossimo.

            Ma cosa è l’amore?

            Rosmini offre questa definizione per i membri del suo Istituto della Carità: «l’amore è l’atto con cui la volontà tende verso il bene, ed è puro e perfetto quando non tende che verso il bene, e perché è bene»[142]. L’amore è libero da interessi circoscritti e limitati, si muove entro una dinamica di universalità e perfezione. La carità non ha altro fine che la stessa carità.

- Amore naturale -) Una prima differenza da prendere in considerazione è quella tra l’amore naturale e l’amore soprannaturale.

            L’amore naturale, richiede un primo passo che consiste nel riconoscimento della dignità unica e infinita della persona; e questa procedura non è altro che riconoscere la verità dell’essere dell’altra persona. La verità sull’essere personale, esige che l’altra persona riceva la stima e l’apprezzamento, e quindi l’amore e la carità che spetta a chi possiede in sé l’intuizione dell’essere infinito da cui sgorga un principio di volontà che non è limitato da nulla se non unicamente da se stesso. Servendoci del linguaggio rosminiano, potremmo convenire che la verità speculativamente conosciuta è teoreticamente ‘riconosciuta’ dalla ragione e tradotta praticamente dalla volontà, la quale nell’agire considera ogni essere umano come fine e mai come mezzo alla propria realizzazione. Ci troviamo così in quella sfera relazionale che potremmo definire «amore naturale oggettivo»[143]. È anche bene ricordare che «l'essenza della verità è l'oggetto per sé manifesto: e l'oggetto è l'essere, non essendovi altro che l'essere che abbia per sé forma di oggetto»[144]. Questo oggetto che si rende conoscibile mostrandosi alla mente è duplice:

a) L’oggetto assoluto, reale nella sua identità è Dio il quale possiede in sé ogni conoscenza possibile;

b) L’oggetto ideale: si tratta dell’idea che si forma la mente umana delle cose percepite dai sensi; questa idea è solo virtuale, cioè non contiene nulla di reale, ed è la forma oggettiva della conoscenza.

            La verità, quindi, è innanzitutto Dio stesso, in quanto sede di ogni conoscenza; e, in secondo luogo, la verità risiede nell’idea che l’essere umano si forma mediante l’intuito.

            Ma “Dio Verità”, essere reale e sostanziale, ha preso dimora sulla terra nella persona del Figlio di Dio, il quale continua la sua opera nel mondo mediante l’azione dello Spirito Santo. Si Tratta tuttavia di una presenza e di una attività soprannaturale di cui il credente fa esperienza nella vita terrena. La fede aiuta a conoscere che «la Verità è lo stesso maestro Gesù Cristo, […] e allo stesso modo, la carità è lo Spirito Santo»[145].

            Da questo possiamo dedurre che il Verbo e lo Spirito sono indivisibili e agiscono nella naturale realtà umana; tuttavia il significato di Verità è riferito a Dio nella persona del Verbo, mentre il termine Carità rivela lo stesso Dio nella persona dello Spirito. Come avviene nella Trinità, così anche nella vita dei discepoli di Gesù Cristo, «Verità e Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una è nell’altra, e nessuna delle due si trova fuori dall’altra»[146].

            Nella vita terrena, l’amore naturale oggettivo, oltre a doversi continuamente muovere sotto il condizionamento dell’amore ‘soggettivo’ – legato ai sensi e in grado sovente di condizionare l’interiorità e le decisioni delle persone –, non è mai in grado di soddisfare al bisogno di amore di cui necessita l’animo umano, dato che questo amore si estende quanto l’idea stessa di amore, cioè all’infinito. Nella natura non vi è né un oggetto che si possa amare in maniera infinita, né un amore che possa introdurre in quella dimensione infinità. Dato che la mente e il cuore umano per loro costituzione ricercano come loro scopo e pienezza solo ciò che è infinito, non è possibile volere un bene infinito alla persona amata se chi ama non conosce o non possiede alcun bene infinito da comunicare.

- Amore soprannaturale - ) Nella vita soprannaturale del cristiano, al contrario, «la carità trova e possiede il fine assoluto dell'amore che è Dio Uno e Trino»[147].

            Cosa è ‘carità’?

            La carità coniuga il dono soprannaturale dell’amore con l’esercizio naturale della bontà guidata dalla volontà di Dio: «Quando dico carità, intendo parlare di una virtù piena, soprannaturale, insegnata da nostro Signor Gesù Cristo, e da lui solo infusa negli uomini. Trattasi di una virtù universale che abbraccia tutto il bene morale: di una virtù ordinata, che si propone di operare secondo le vie della Provvidenza, secondo la volontà del celeste Padre»[148].

            Da questo amore, comunicato al mondo da Cristo stesso, sgorgano due differenti applicazioni: a) la “carità della fraternità”, espressa sia dalla Scrittura con le parole “i fratelli poi erano un cuor solo e un’anima sola” (At 4,32), sia dal fatto che le comunità cristiane vivono nella consapevolezza di comporre il mistico corpo di Cristo perché partecipi della sua morte e risurrezione; e b) la “carità dell’umanità”, che si esplica in questo amore verso tutti coloro che ancora non conoscono o non accettano Cristo come Salvatore, affinché la loro conversione li possa rendere partecipi della grazia e della gloria del Regno di Dio.

- Carità e giustizia -) Vi è una ulteriore caratteristica che risalta nella dimensione soprannaturale, ed è il fatto che la carità di Cristo coincide con la più perfetta ‘giustizia’. Infatti, l’oggetto precipuo dell’amore è la stessa volontà della persona amata. Colui che ama desidera che la volontà dell’amato sia compiuta; la carità, quindi, trova piena fecondità quando il credente compie la volontà di Dio. E Dio cosa chiede? La cosa singolare è nel fatto che l’Essere divino, essendo l’Amore, non chiede niente altro che l’amore. Da questo si comprende perché il comandamento dell’amore sia sintetizzato nei due precetti della carità.

            Il legame che intercorre tra carità e giustizia è il seguente: la giustizia, considerata nel suo primo atto, cioè nella sua attività iniziale corrisponde alla la virtù universale, perché, riconoscendo ogni essere per ciò che realmente è, si pone su ciascun ente la giusta stima e si dona loro il giusto valore. Il passo successivo della virtù consiste nell’amare in modo ordinato l’essere conosciuto. Questo amore, questo affetto regolato e appropriato prende il nome di ‘amore universale’. Per cui ne deriva come logica conseguenza che «alla giustizia e all'amore si può ridurre egualmente ogni virtù: di che s'intende perché nell'ordine soprannaturale la virtù si riduca alla carità»[149]. Con differente espressione, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma il medesimo concetto quando dichiara che «l'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità»[150].

            Il paradigma di ‘carità universale’, rivela in sé una singolare trilogia.

- Tre forme di Carità - ) È ancora molto diffusa tra la gente l’idea che la carità consista esclusivamente nel fare la beneficenza ai bisognosi donando loro dei soldi o altri aiuti di carattere materiale. Si tratta di un impegno ammirevole ed essenziale. Questo tipo concreto di aiuto al prossimo prende il nome di carità temporale, o anche carità materiale.

            Sappiamo tuttavia che uno dei danni maggiori per la persona umana è l’ignoranza, perché non consente una propria autonomia e inoltre atrofizza enormemente lo sviluppo delle proprie capacità intellettive e dei propri talenti artistici, o artigianali. Mediante lo studio, l’insegnamento e la formazione si può venire incontro alle persone guidandole nel retto uso della loro ragione, e in particolare illuminando la loro mente per allontanarle dall’errore e condurle a riconoscere ciò che è vero, buono e bello nelle varie scienze e discipline umane. A questo tipo di benevolenza verso gli altri si riduce la carità intellettuale.

            È tuttavia facile constatare che si può fare un cattivo uso tanto delle cose temporali, come anche delle proprie cognizioni intellettive. Non vi è pertanto un bene più grande di questo, che è quello di rendere le persone consapevoli che il loro fine consiste in una vita aderente ai principi morali e in una esistenza illuminata dalla virtù della giustizia. È il bene morale l’unica qualità che permette di raggiungere la felicità eterna. Ed è appunto l’adesione all’essere morale a costituire la carità spirituale. Questo intreccio tra moralità e carità è il presupposto per la libertà: «La pratica della vita morale animata dalla carità dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio»[151].

            L’uomo retto conserva questa visione universale della carità. È specifico della carità universale sia l’esercizio delle tre forme di carità, come anche la consapevolezza che solo nella terza, cioè nella carità pastorale si può realizzare la pienezza del disegno amorevole di Dio nella storia temporale.

 


LE VIRTÚ CARDINALI

 

«Quattro virtù hanno funzione di “cardine”. Per questo sono dette “cardinali”; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse»[152]. Le quattro virtù cardinali non sono una caratteristica del Cristianesimo. Le troviamo in Platone e in Aristotele. Nella Sacra Scrittura appaiono per la prima volta nel Libro della Sapienza (Sap 8,7) – scritto nel periodo ellenistico, sotto l’influenza della cultura greca.

 

 

a) Prudenza

 

            Nel Catechismo della Chiesa Cattolica si descrive la prudenza come «la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo […] È detta “auriga virtutum – cocchiere delle virtù”: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura»[153]. ‘Ragione pratica’ significa che due potenze umane sono coinvolte, e  cioè l’intelligenza, per riconoscere la verità, e la volontà, per amare e mettere ‘in pratica’ la verità conosciuta. Ma oltre a questo, la prudenza porta a discernere il bene specifico e a trovare i giusti mezzi per realizzarlo.

            Altrettanto precisa e sulla stessa linea è l’indicazione che troviamo nella definizione di Rosmini il quale identifica la virtù della prudenza nella volontà retta capace di muovere nel debito modo la ragione al fine di trovare e usare i mezzi giusti per raggiungere un ‘fine onesto’, vale a dire un bene morale, un bene conforme alla volontà di Dio.[154]. Occorre, in ogni caso precisare che la volontà sarebbe inefficace se nella persona l’uso della ragione non fosse già abituata ad organizzarsi e ad applicarsi nella ricerca e nell’uso degli strumenti appropriati.

            Per giungere alla virtù della prudenza, allora, occorrono due ‘abiti’, due facoltà che la ragione deve sapere usare con abilità, queste due qualità sono la scienza e la dialettica: di fronte ad un problema bisogna conoscere bene la situazione in cui ci si trova, e occorre non lasciarsi coinvolgere dalla emotività, ma con calma e freddezza esaminare i pro e i contro così da capire con precisione quali siano le strade da percorrere al fine di giungere al fine desiderato.

            In tutto questo procedimento non si è ancora nell’esercizio della virtù della prudenza, perché l’abilità a saper trovare i mezzi giusti per raggiungere un determinato scopo, non è specifico delle persone buone, o dei credenti. Infatti una simile abilità può sovente identificarsi con l’astuzia, dato che i mezzi a disposizione dell’umanità possono essere usati tanto per il bene quanto per il male. Risulta chiaro che quando la prudenza è separata, staccata, lontana dalla morale, in tal caso non la si può più considerare una virtù.

            Quello che si richiede, allora, è innanzitutto un fine ‘onesto’, cioè morale; occorre avere come scopo la ricerca del bene maggiore delle persone, che deve essere accompagnato da una ‘abitudine’ retta della volontà’. Questa consiste nel desiderio e nella determinazione a ricercare per sé e per gli altri il bene più grande, il quale non può essere altro che la salvezza eterna.

            Vi sono alcuni aspetti singolari da esaminare:

a) La prudenza non coincide con la sapienza. 1. La sapienza consiste nella relazione e contemplazione del fine ultimo e supremo, ed a questo fine la mente subordina ogni altra realtà. La prudenza invece consiste nella ricerca e applicazione dei mezzi adatti per raggiungere degli obiettivi temporanei, terreni e quindi inferiori rispetto allo scopo massimo, sebbene debbano sempre rispondere ad un fine morale e onesto. 2. Oltre a questo, l’oggetto della sapienza è interiore, perché il suo fine ultimo e assoluto è nella intimità della persona; invece, gli oggetti che la prudenza deve prendere in considerazione sono esteriori e terreni, perché sono esteriori i mezzi che deve mettere in atto per raggiungere i fini speciali a cui è preposta. 3. Non è raro pertanto che una persona sia sapiente ma non prudente, che sappia quindi orientare tutta la propria vita al fine ultimo, mentre nella vita pratica, nelle sue attività sia poco accorta, perché inesperta e di mente poco elastica nell’apprendere meccanismi e norme relative a quel compito specifico. Allo stesso modo si può incontrare un soggetto molto prudente, che sa trovare mezzi e risorse per raggiungere particolari obiettivi, ma non abbia una eguale e profonda conoscenza del significato e del valore esistenziale della vita di fede[155].

b) La “scienza della società civile”. Con questa espressione si intende la iniziale formazione e la seguente conservazione della società civile. Ora una qualsiasi nazione non può essere governata se non mediante due esimie virtù, che sono la giustizia e la prudenza. Tali virtù esercitano due compiti essenziali, ma differenti, perché «la giustizia è l'oggetto del Diritto, la prudenza è l'argomento della Politica»[156]. Questa distinzione la si comprende immediatamente se si tengono presenti le seguenti due definizioni: a) «Il diritto è una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto»[157]. Ogni persona deve avere la possibilità di agire, intraprendere attività o conservare la propria autonomia di azione in tutto ciò che è moralmente buono, senza subire alcun intralcio o impedimento da parte delle altre persone. Come si può notare, qui rientra perfettamente il concetto di giustizia in cui bisogna “dare a ciascuno il suo”, cioè rispettare gli altri e ciò che è di appartenenza, e di pertinenza o anche di iniziativa delle altre persone. b) La Politica è «l'arte di dirigere la società civile verso il suo fine mediante quei mezzi che sono di pertinenza del governo civile »[158]. La politica deve innanzitutto conoscere la natura e il fine della società di cui è responsabile, al fine di trovare i mezzi specifici e adeguati che consentano di guidare e condurre la comunità civile con competenza e autorevolezza. Si può così affermare che la prudenza è una qualità necessaria ad ogni governo e ad ogni persona che si assume la responsabilità politica di fare progredire e migliorare una società civile.

c) La prudenza sacerdotale. Sebbene la santità non abbia bisogno di doni particolari per raggiungere il proprio fine che è la salvezza della propria anima; tale santità non è però sufficiente in coloro che hanno come compito precipuo quello di educare e guidare gli altri alla santità. La santità sacerdotale ha bisogno di due braccia, o, se si preferisce, di due mani sempre pronte al proprio compito che è quello della prudenza e della conoscenza. Queste due qualità non sono opzionali nel sacerdote, ma obbligatorie. La prudenza, inoltre, deve essere «la fedelissima prima ministra dello zelo sacerdotale e pastorale»[159]. Rosmini, per esprimere il legame indispensabile che deve intercorrere tra zelo e prudenza, si serve di una curiosa espressione dove «zelo e prudenza sono veramente come fratello e sorella, gemelli di una medesima madre, la divina carità»[160]. La prudenza, tuttavia, nella Scrittura, viene presentata sotto due opposte dimensioni: la 'prudenza della carne’ e la ‘prudenza dello spirito[161]; la prima è carnale e diabolica, la seconda viene dall’alto ed è pura e santa. Questa doppia qualifica è possibile se si considera che la prudenza, presa in senso lato, «consiste nel saper trovare e adoperare i mezzi che conducono al fine che noi vogliamo ottenere»[162]; dato che il fine può essere buono o cattivo, così anche la prudenza, che indica i mezzi per ottenerlo, può trasformarsi in una virtù ammirevole o in un vizio detestabile. Si comprende quindi che se il sacerdote ha Dio come fine e scopo della sua vita, la sua prudenza sarà buona, ma se il ministro ordinato, nelle attività che svolge ha come fine se stesso, allora la sua prudenza sarà pessima e deleteria. Il ministro di Dio deve essere prudenti secondo l’insegnamento di Cristo, il quale insegna che la prudenza deve essere accompagnata dalla semplicità della colomba: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Qui con il termine ‘colomba’ si intende rappresentato simbolicamente lo Spirito Santo, quindi si fa riferimento all’amore divino, per cui la prudenza del sacerdote non deve solamente strisciare sopra la terra, ma deve possedere le ali della colomba per volare in cielo.

            Una ulteriore distinzione si ha tra la prudenza del sacerdote e quella comune a tutti i cristiani. Al sacerdote non è sufficiente una virtù ed una santità tipica di ogni fedele, a lui se ne richiede una più specifica, perché, le parole di Paolo in riferimento agli apostoli, Rosmini le attribuisce ai sacerdoti: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli Apostoli, all’ultimo posto, […] Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo» (1 Cor 4,9.10). Nel campo della prudenza, a volte il laico può e deve tacere, mentre il sacerdote ha il dovere di parlare, e se in certe circostanze il semplice credente deve astenersi dall’agire, e sembrare così prudente, al sacerdote invece compete ed è richiesto combattere a viso aperto, anche se questo lo faccia apparire imprudente agli occhi della gente; da qui «ecco i due gradi della prudenza: l'apostolica, più sublime, nos stulti [noi stolti]; e quella dei semplici cristiani, meno elevata, vos autem prudentes in Christo [voi prudenti in Cristo]»[163]. Risulta esplicito che il sacerdote deve sempre pronunciare parole di verità e di giustizia in modo tale che risultino il più possibile indicative e vantaggiose per le anime loro affidate[164].

 

 

b) Giustizia

 

            Il tema della giustizia è uno dei maggiori obiettivi sensibili della società contemporanea. Il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il significato etico-giuridico della virtù della giustizia, aggiungendo la valenza morale del termine a significare lo stretto legame che intercorre tra la giustizia terrena e quella divina. La giustizia viene quindi definita come

«la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata «virtù di religione». La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del bene comune»[165].

            Anche nel linguaggio popolare si è diffusa l’antica formula del Diritto romano secondo la quale la giustizia si mette in atto nel “dare a ciascuno il suo”, il che è giuridicamente corretto.

            Occorre però andare oltre, e ricercare il fondamento, e quindi il significato autentico della giustizia.

            La giustizia consiste nel riconoscimento pratico dell’essere. Nei Principi della scienza morale , dopo aver posto una prima norma morale «segui nel tuo operare il lume della ragione»[166], formula una seconda legge «Vuoi, o sia ama l’essere ovunque lo conosci, in quell’ordine che egli presenta alla tua intelligenza»[167]. L’uomo è quindi chiamato a dare il giusto riconoscimento a tutto quello che conosce e a trattare ogni singola realtà in maniera ordinata, rispettando la finalità che è insita nella struttura del proprio essere.

            Dal momento che la giustizia dipende dalla razionalità,  a motivo del peccato originale, i limiti che hanno contagiato la ragione hanno, allo stesso modo, intaccato la giustizia, per cui «nel figlio di Adamo […] prevale l’immaginazione sulla ragione. E poiché la giustizia è il dettame della ragione seguito fedelmente dalla volontà, oscurandosi il lume della ragione doveva eclissarsi nell’uomo anche il lume della giustizia»[168].

            L’uomo infatti, nella creazione, ottiene in dono tutte le componenti dell’essere umano, e, oltre all’animalità del corpo, riceve anche la personalità posta nell’anima intellettiva. Sin dalla creazione l’uomo è costituto persona, egli è quindi un soggetto fisico dotato di intelligenza e volontà. In questa situazione iniziale l’uomo può seguire una giustizia originaria[169], dal momento che possiede una volontà retta. La volontà è retta perché strettamente dipendente dalla ragione che a sua volta segue l’ordine dell’essere, sempre orientato al bene morale e oggettivo.

            Cosa avviene con il peccato originale? O, meglio, su quali potenze agisce il peccato originale? «L’essenza del peccato originale non si può riporre negli atti particolari della volontà; e neppure nella volontà come potenza; ma nell’essenza dell’anima volitiva e tendente al bene»[170]. Con il peccato originale viene a inserirsi nell’essere umano una disposizione, che non è riducibile semplicemente ad una tendenza verso i beni tangibili e naturali, cioè verso i piaceri corporei e soggettivi, ma si tratta di una qualità che fa deviare, o meglio che si impossessa anche della parte superiore dell’essere umano – da qui il termine concupiscenza – per cui la persona non si conforma all’ordine della ragione, ma nei discendenti di Adamo, in seguito a questa disposizione disordinata, vi è la perdita della giustizia originaria. Tale perdita non consiste semplicemente nella assenza della grazia, ma è «l’indebolimento morale della volontà nell’uomo»[171], la quale non ha più la forza di ricercare e di adeguarsi liberamente al bene oggettivo. La volontà viene a trovarsi in questo disordine morale perché non ha più la guida dell’anima razionale, ormai – ecco dove ha inciso il peccato di origine – troppo legata all’animalità del corpo. Il lume della ragione, sebbene non cessi di risplendere nell’essere umano, non è più però la costante guida dell’uomo e quindi non ha più grande influenza sopra un essere ormai propenso verso una prepotente fisicità e voglioso di un appagamento prevalentemente soggettivo[172].

            La presenza del peccato nell’universo produce tre differenti disordini.

1) Il peccato priva l’uomo della giustizia, in primo luogo della giustizia verso Dio.

            Sia la luce della ragione che la luce della fede ci consente di riconoscere in Dio l’Essere supremo, incomparabile a qualsiasi altro ente in quanto qualsiasi altro ente è sua creatura. Il peccato porta l’uomo a preferire la creatura al Creatore, e, in questo modo, priva Dio di ogni stima, affetto e amore.

2) Il peccato spoglia l’uomo di ogni giustizia che egli deve all’umanità.

            Grazie alla luce intellettiva, ma ancor più in forza della luce della fede, l’uomo è fatto a immagine di Dio, e questo lo rende partecipe di una dignità infinità. Il suo destino è la santità. Il peccato lo degrada al livello delle bestie e degli stessi demoni, per cui, nel rapporto sociale le altre persone vengono poste sullo stesso piano delle cose, ed anziché essere rispettate e stimate, vengono usate, e peggio ancora, abusate.

3) Il peccato toglie all’uomo ogni giustizia che egli deve usare verso le creature prive di ragione. Il peccato capovolge l’ordine della creazione. Il fine dell’uomo è la giustizia, e gli elementi materiali sono mezzi alla giustizia. A causa del peccato, le creature prive di anima intellettiva divengono lo scopo primario nella vita dell’umanità, e i doni di Dio vengono abusati e usati contro di Lui[173].

            Il Battesimo realizza – secondo le parole di Agostino – il «libero arbitrio liberato», per cui «posta nell’uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita»[174].

            Una ulteriore distinzione ha luogo tra la giustizia naturale e quella soprannaturale. La giustizia naturale consiste nella «rettitudine di tutte le potenze di cui l'uomo è composto, di maniera che la parte superiore, la volontà, comandi e diriga la parte inferiore seguendo le indicazioni della ragione»[175]. Le parti inferiori sono costituite dalla affettività, dai sensi fisici e dall’istinto corporeo. La giustizia soprannaturale armonizza tutte le potenze naturali dell’uomo perché è «una giustizia informata dalla grazia»[176], e questa, oltre a dare una conoscenza razionale di Dio, ne consente una esperienza diretta, facendo dono alla persona umana della capacità di poterlo sentire e amare come fine ultimo e sommo bene. In questo modo, il credente, unendo la propria volontà a quella di Dio, viene messo in grado di tendere a lui con tutto se stesso.

            Nel Catechismo secondo l’ordine delle idee si fa notare che «la giustizia è quella virtù con la quale noi diamo a tutti il suo; e si esercita verso il prossimo con il non violare mai i suoi diritti»[177]. Da quanto abbiamo potuto vedere, la giustizia può essere presente solo nel caso in cui vi sia una volontà retta. Pertanto qualunque comportamento è retto o giusto nella misura in cui è unito alla giustizia.

            Inoltre, la giustizia deve essere considerata una ‘virtù universale’; infatti, la dichiarazione di s. Tommaso, secondo cui la ‘virtù della giustizia’ è «un abito mediante il quale l’uomo con una volontà costante e perpetua dà a tutti il suo giusto, cioè il suo diritto»[178], significa che la volontà umana, sempre e ovunque, è chiamata a riconoscere a ciascun essere ciò che gli è proprio. Se compirà questo, la volontà conserverà sempre un grande rispetto per tutto ciò che è rettamente buono. Ma questo concetto è chiaramente un principio morale universale. Di conseguenza, la giustizia riceve in questo modo una applicazione universale.

            Nondimeno, la giustizia non può essere confusa con la bontà.

            La bontà «consiste nel cercare di rendere gli altri più perfetti e felici, mediante quelle azioni che non si è obbligati a compiere, ma che spontaneamente si compiono»[179]. Al contrario, la giustizia non richiede molte azioni, ma impone di evitare qualsiasi comportamento che possa essere pregiudiziale ad altre persone. Per questa ragione, la giustizia determina il modo di agire, mentre la bontà, come gli atti di carità «aumenta il numero di azioni»[180] e di diritti.

            Appare chiaro che la giustizia opera su due differenti livelli: a) In ambito religioso, dove la creatura umana deve adempiere i propri doveri verso Dio; b) Nella società civile, dove è opportuno tenere a mente i differenti aspetti che assume la giustizia in ambito giuridico: a/ La giustizia Commutativa «regola gli scambi tra le persone e tra le istituzioni nel pieno rispetto dei loro diritti. La giustizia commutativa obbliga strettamente; esige la salvaguardia dei diritti di proprietà, il pagamento dei debiti e l'adempimento delle obbligazioni liberamente contrattate. Senza la giustizia commutativa, qualsiasi altra forma di giustizia è impossibile.» [181]. b/ La giustizia legale «riguarda ciò che il cittadino deve equamente alla comunità» [182]. c/ La giustizia distributiva «regola ciò che la comunità deve ai cittadini in proporzione alle loro prestazioni e ai loro bisogni»[183].

            Il Catechismo, nell’approfondire il tema della giustizia sociale, introduce anche il principio di solidarietà, il quale, oltre ad essere indicato con le espressioni di ‘amicizia’ e ‘carità sociale’, riceve nel Catechismo la definizione di ‘virtù della solidarietà’, dato che oltrepassa l’ambito dei beni materiali[184].

            Dove scoprire le radici della stessa giustizia?

            Dato che la giustizia è strettamente legata e dipendente dall’essere, e poiché in Dio l’’essere è un ‘essere personale’, ne segue che anche la giustizia si rivela come ‘giustizia personale’ «come voluta e […] decretata dalla volontà assoluta identica con l’essere assoluto»[185]. Questo porta le persone a passare naturalmente dall’espressione “questo è giusto” all’affermazione “questo è voluto da Dio”. Se è vero che l’una porta all’altra, è anche vero che nessuna delle due può rimanere senza l’altra. Difatti «conviene che ci sia qualche cosa di oggettivamente giusto, affinché si possa concepire una volontà santa che lo voglia»[186]. Questi due aspetti – “oggettivamente giusto” e “la volontà che vuole questa giustizia oggettiva” – non possono essere separati dal momento che ambedue hanno la loro origine e fondamento nella Trinità, in particolare nella «processione delle persone divine», ‘processione’ in quanto ogni persona ‘procede’ dall’altra. In che senso? Dato che il Padre, affermando sé stesso, grazie a questo ‘pronunciamento’ dà origine al Verbo, ma poiché tale ‘pronunciamento’ è «affermazione speculativa e pratica allo stesso tempo», anche il Verbo ‘pronunciato dal Padre’ possiede la qualità di affermare e volere ciò che vuole il Padre, e pertanto anche il Verbo ha «la facoltà di spirare colla stessa spirazione del Padre lo Spirito Santo». Da questo si trae la logica conclusione che il «Verbo riconosciuto è oggetto ad un tempo e persona. In quanto dunque è oggetto, mostra ciò che è il Padre, o piuttosto è il Padre già ab eterno manifesto a se stesso, è la giustizia oggettiva sussistente. Ma in quanto il Padre si vuole con lo stesso atto dell'affermarsi, è la giustizia personale e deliberativa e legislativa. E perciò chi toglie le due forme preaccennate della giustizia[187], lasciando solo la volontaria e deliberativa (e tali forme per l'uomo sono due modi di manifestazione), distrugge la divina Trinità, a cui si riducono e in cui si fondano»[188].

            Ma vi è un’altra originale formula dove la giustizia è adesione all’essere che cristianamente si identifica con la volontà di Dio, come recita la prima massima nelle Massime di perfezione cristiana: «Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio cioè di essere giusto»[189]. Si tratta chiaramente della santità a cui ogni essere umano è chiamato, e che potremmo considerare come una introduzione dell’ascetica rosminiana alla virtù della giustizia.

            E dato che la santità del semplice fedele non si differenzia dalla vocazione e santità dei membri dell’Istituto della Carità, Rosmini, dopo avere spiegato che il «fine di questa società è procurare diligentemente la santificazione dei membri di cui si compone»[190], aggiunge una ‘dichiarazione’, dove chiarisce che «la santificazione propria deve essere, allo stesso modo, fine e mezzo della santificazione altrui»[191]. E questa santificazione, vale a dire la salvezza dell’anima – secondo le Regole Comuni – «si ottiene mediante la giustizia»[192], la quale non consiste in altro che in questo: nella astensione dal peccato[193].

            La giustizia resta talmente essenziale all’Istituto della Carità che il solo desiderio di possederla può essere assunto come unico segno di vocazione. Questo è quanto Rosmini scrive al sacerdote Giuseppe Gagliardi, parroco di Agrate: «Ciò che l’Istituto della Carità considera per segno di vocazione è unicamente “il desiderio e il proposito di cercare la maggior giustizia possibile, rimossa ogni altra riflessione; perciò un pieno sacrificio di sé, con piena indifferenza a qualunque luogo, a qualunque grado, a qualunque ufficio”»[194].

            Nelle Regole Comuni leggiamo ancora: «La giustizia è il fondamento di tutta la Società. Ciascuno, dunque,[ogni membro dell’Istituto] si adoperi con umiltà e con incessante sforzo, pienamente fiducioso nella grazia di Dio, per accrescere ogni giorno di più la purezza di sua coscienza»[195].

            Perché questa costante attestazione, che l’Istituto della Carità nella sua essenza esige il desiderio e il compimento della giustizia? Perché l’Istituto ottempera alla sua vocazione solo quando esercita la giustizia?

            Dato che – come visto sopra – “la giustizia è il fondamento di tutta la Società”, ogni membro dell’Istituto dovrebbe costantemente sforzarsi di ricercare una vita libera dal peccato. ‘Astensione dal peccato’ e ‘purificazione della coscienza’ significano che la persona desidera vivere secondo l’ordine morale dell’essere, infatti «quest’ordine richiede che noi stimiamo ed amiamo Iddio per quello che egli è: il principio e il fine di tutte le cose, l’essere stesso, il necessario, l’assoluto»[196]. E tutto questo non è altro che ‘vivere secondo giustizia’, dal momento che il primo atto di giustizia è quello di riconoscere Dio come essere assoluto, e quindi di rispettarne la sua unicità. Si deve poi riconoscere che le creature sono relative a Dio e, che vanno quindi trattate in rapporto al loro grado di essere, che è inferiore a Dio, ma superiore ad ogni altra realtà creata. Per questo le persone devono sempre essere considerate come fine e mai come mezzo; mentre le cose – per concludere –sono mezzo all’uomo per esercitare i propri talenti e raggiungere la propria perfezione. Poiché un mezzo è funzionale se conservato in buone condizioni, così anche la natura richiede cura e rispetto da parte dell’uomo.

 

 

c) Fortezza

 

            Il punto critico della società contemporanea non risiede nelle varie crisi politico-economiche internazionali, ma nei suoi principi morali, o meglio nella carenza di principi morali. Il grande dono della libertà che la democrazia porta con sé, è continuamente soggetta al rischio che i limiti posti dal diritto vengano allentati e sfilacciati al punto da trasformare la libertà in libertinismo. E questo è la negazione della libertà, perché è un’altra forma di schiavismo e di asservimento.

            Uno dei sintomi più evidenti della licenza morale attuale è la scissione tra corpo e persona. I siti pedo-pornografici in rete lasciano trasparire la concezione che tutto ciò che è mediatico possa e debba essere considerato anche ‘amorale’, cioè esterno e staccato da ogni valenza morale, quasi fosse al di là del bene e del male. Non è solo il corpo della donna ad essere mercificato, ma non vengono più salvaguardati né gli adolescenti e tanto meno i bambini. Addurre la giustificazione che si tratti di modalità virtuale significa non tenere in considerazione i seguenti aspetti: a) ciò che appare in rete ha avuto prima la sua attuazione nella realtà; b) le immagini, i suoni, le parole sono un potente veicolo di innovamento psichico e culturale nelle persone, tenendo presente che non sempre la novità è indice di bontà e onestà; c) una delle propulsioni della storia è la forza dell’imitazione – non per nulla l’alta Moda, gioca sul fatto della ‘sfilata’, cioè della ‘visibilità’; sullo stesso meccanismo si muove la pubblicità, ma anche gli stessi scritti agiografici – e) si dimentica che ogni meccanismo psichico, che non sia guidato dalla razionalità, gioca sulla convinzione che ‘ciò che è visibile, è anche fattibile e ripetibile’.

            Altre e altrettanto gravi violenze vengono gestite dai Media con la medesima superficialità e leggerezza. Ma dato che i Mezzi di comunicazione sono portavoce della società civile, si può dedurre che nuovi principi ‘immorali’ – la ‘amoralità’ non sussiste nelle dinamiche relazionali – stanno influenzando con prepotenza il pensiero contemporaneo.

            L’allentamento morale, a seguito del clima di prevaricazione e violenza nelle nazioni non solo occidentali, viene lucidamente espressa da Robin Barrow nel suo libro di introduzione alla morale: «Rimane certo il fatto che la percezione che il mondo in definitiva sia un luogo di malvagità dove spesso il male trionfa sul bene è un potente fattore di suggestione che porta la gente a pensare che la morale non porti alcun vantaggio, e che quindi non debba essere presa troppo seriamente»[197].

            Questo spiega quanto sia ancor più necessario non solo uno sforzo razionale per riscoprire e ridefinire una rinnovata cultura morale, ma diventa altrettanto importante sapere resistere alle facili tentazioni che la ‘mentalità consumistica’ tenta introdurre nel sacrario della coscienza dell’uomo d’oggi.

            La resistenza alle tentazioni trova un suo preciso ambito nella virtù della fortezza. Ci viene incontro il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa»[198].

            Anche ai nostri giorni, più di quanto si possa pensare, il rischio per i cristiani di perdere la vita a motivo della fede è altissimo, diffuso e senza possibilità di difesa non solo fisica, ma spesso anche giuridica. In alcuni Stati, infatti, vengono sovente promulgate leggi di ostracismo religioso – non è raro il caso in cui siano specificamente anti-cristiane – che conducono alla pena capitale.

            La virtù della fortezza, che consente di comandare dentro di sé e di tenere nel debito conto le cose fuori di sé, la si incontra in stretta relazione con le altre tre virtù cardinali. Francesco Paoli – segretario di Rosmini negli ultimi anni della sua vita – descrive bene questo connubio con le altre virtù; egli afferma che «chi è giusto partecipa della forza del diritto, chi è temperante signoreggia se stesso, e chi è prudente si rende spesso padrone degli avvenimenti»[199].

            La traccia di questa interrelazione la troviamo già espressa e formulata da Rosmini quando parla degli ostacoli che possono subentrare nell’animo umano al momento del passaggio dalla convinzione teorica all’atto pratico. Egli fa notare che «la volontà che ha l'abito della giustizia, cioè “l'universale e costante proposito di operare in conformità della prima legge” [cioè, l’idea dell’essere, che è il principio della morale], quando viene a porre le operazioni esteriori che da tale norma naturalmente derivano, deve superare tre impedimenti»[200].

            Questi limiti sono:

1) L’ignoranza dei mezzi da scegliere. Dal momento che la volontà deve trovare motivazioni convincenti per mettere in pratica il bene conosciuto, ha bisogno di seguire un ragionamento ordinato e competente, per questo sono necessarie la virtù della prudenza e il dono della scienza. Così nel caso in cui si debbano pronunciare parole consolatorie ad una persona nel dolore, occorre conoscere bene le cause della sofferenza, ma anche il carattere, il temperamento e la mentalità della persona. Oltre poi alle conoscenze psicologiche è opportuno misurare e scegliere con attenzione e proprietà le parole da utilizzare.

2) La forte attrazione che esercitano i ‘beni eudemonologici’, cioè quei beni soggettivi e individuali legati sia agli appetiti sensitivi (i piaceri del corpo), ma anche alle gratificazioni psichiche (la fama, la gloria, il successo), oppure all’influenza sociale (la ricchezza, il potere). Va tenuto presente che tutte queste realtà sono in sé positive, sino a che rimangono nella dimensione della giustizia. Ma può tuttavia succedere che la concupiscenza tenda a prevalere, e in questo caso la persona corre il rischio di cadere o nell’ingordigia o nell’ambizione. Di fronte a questa tentazione si riesce a trattare questi beni in modo ordinato e conforme al loro valore mediante la virtù della temperanza.

Può così capitare che il successo ottenuto in una attività lavorativa, porti altre persone a offrire ulteriori progetti e proposte di nuove assegnazioni imprenditoriali, a patto che si sia disposti a versare le tangenti richieste. La tentazione può portare a pensare che nuovi lavori significano nuove assunzioni con cui incrementare l’economia, sostenere le famiglie e ampliare le offerte lavorative. Ma per ottenere questo occorre infrangere tanto la legge civile che quella morale. Notiamo come qui la tentazione è quella di contrapporre un bene reale non solo individuale, ma anche sociale ad un valore morale e giuridico. La temperanza aiuta a dare il giusto peso alle occasioni, scartando immediatamente quelle che non conducono ad un vero bene morale delle persone.

3) Gli ostacoli e le difficoltà che rendono difficile la realizzazione del bene morale. Difficile non significa ‘impossibile’, ma senza dubbio si richiede maggiore attenzione e determinazione per portare a compimento il bene intrapreso. Tutti questi limiti che rallentano o minacciano l’esito e la realizzazione dell’opera buona vengono superati grazie alla virtù della fortezza.

Di fronte alle accuse ingiuste che ci possono essere rivolte, sovente frutti di pettegolezzi e maldicenze, siamo chiamati a conservare la calma interiore, senza lasciarci prendere dallo spirito di vendetta, ma neppure abbandonarci alla sfiducia e al pessimismo. La tentazione immediata potrebbe essere quella di abbandonare tutto, e ritirarsi in solitudine, o, diversamente, reagire inconsultamente dietro la pressione del nervosismo e l’amarezza del torto subito. La virtù della fortezza ci aiuta a continuare a portare avanti i nostri doveri, e a trattare con equilibrio chiunque possa incontrarci, siano essi amici, senza inondarli di giudizi negativi sui nostri delatori – perché le nostre parole sarebbero frutto di emotività e rabbia –, e siano essi gli autori delle offese che abbiamo ricevuto – ricordando che non siamo tenuti a ignorare l’accaduto, ma, pur riconoscendo l’ingiustizia, siamo chiamati a mettere in atto il ‘perdono’, che consiste nel fare prevalere la verità e non le nostre reazioni, passioni e amarezze[201].

            Vi sono poi due ‘funzioni generali’ che appartengono alla virtù della fortezza, e che sono la sofferenza e l’intraprendenza. Nella vita del credente «a volte la volontà non può conformarsi alla norma della legge [= al bene morale] se non a condizione di patire molti mali; altre volte non può conformarsi a quella norma se non a condizione di operare cose difficili»[202].

            Il legame con altre virtù è in realtà un passaggio di consegne, come se la virtù della fortezza consegnasse il testimone a diverse, competenti e specializzate potenze:

a) La fortezza si trasforma nella virtù della pazienza e della costanza ogni volta che la volontà è disposta a sopportare grandi mali pur di rimanere ferma nei propri principi morali.

b) Quando la volontà «è disposta ad assalire e vincere positivamente gli ostacoli che si oppongono al bene, la fortezza si cambia nella virtù della fiducia che dispone alle imprese, e del coraggio che le affronta, e della longanimità che sostiene a lungo prima di raggiungere lo scopo»[203]. Non è fuori luogo ricordare qui la significativa espressione di Platone, il quale affermava che «il coraggio è la forza illuminata dall’intelligenza»[204], e, in altro scritto, specificava che «il timore e la paura consistono in una certa attesa del male»[205].

c)Se la volontà sa proseguire con tenacia sino a raggiungere il fine morale stabilito, nonostante vengano richiesti tempi lunghi, grandi sofferenze e molteplici difficoltà, in tal caso, la fortezza si traduce nella virtù della perseveranza.

            Tuttavia, ad un attento esame, ci rendiamo conto che la fortezza si trova già direttamente inserita nel significato di virtù. Infatti, la virtù può essere vista come: x) un proposito che è sempre presente nell’animo; y) «come un valore, una fortezza della volontà riverente alla legge, superiore ad ogni attrazione sensibile»[206]; z) come un ‘principio di azione operativo’ che guida tutte le attività umane sempre in perfetto accordo con quel proposito morale fondamentale. In effetti, per rimanere costantemente fedeli alle esigenze della virtù vi è senza dubbio bisogno di una grande fortezza d’animo.

 

 

 

 

 

d) Temperanza

 

            Nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una esaustiva spiegazione della virtù della temperanza, la quale «è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore»[207].

            Rosmini tende ad unire la virtù della temperanza a quella della fortezza. Riconosce il fatto che con facilità la volontà può essere sedotta dalle cose piacevoli, ed essere tentata nel loro uso di andare oltre i giusti limiti. La temperanza aiuta a rispettare i confini che sono posti dalla norma morale e quindi vigila affinché le varie esigenze naturali della persona rimangano nell’ordine dell’essere. L’esempio più immediato che viene alla mente è senza dubbio l’istinto del nutrimento. Istinto in quanto esigenza che nasce dalla legge naturale della sopravvivenza e quindi consente agli esseri viventi di ricercare ciò di cui hanno bisogno per ricreare il proprio potere energetico. Mangiare con moderazione, secondo le proprie necessità e attività, è un dovere morale. Una volta soddisfatto l’appetito, ogni porzione di cibo in più è richiesto non dall’esigenza di vita, ma dalla prepotenza del piacere. La temperanza pone un freno al ‘piacere smoderato’, riportando la volontà a seguire le indicazioni della ragione, che sa riconoscere tra i limiti nutrizionali e l’esagerazione piacevole. Dato però che la volontà è indebolita per l’influenza di fattori estranei alla razionalità – come le attrazioni sensuali o la paura di qualche male incombente – in questo caso si rende necessaria la virtù della fortezza che supplisce alla debolezza della volontà e muove ad agire con azioni vigorose e valorose per superare gli ostacoli e rimanere nel cammino della moralità. In questo modo abbiamo il giusto equilibrio dato che «la temperanza modera l’azione superflua, e la fortezza rimedia alla mancanza di azione della volontà nel perseguire il proprio bene»[208].

            Come per la fortezza, così anche per la temperanza si possono distinguere diverse tipologie, da cui risulta che ogni gradevole sensazione o percezione di sé che può attrarre la volontà contro le indicazioni della razionalità dipende dal tipo di oggetto che seduce e induce ad essere desiderato.

            Proprio la difformità tra i beni che attraggono permette alla virtù della temperanza – come già si è visto per la fortezza – di chiamare in causa e modulare la volontà verso altre differenti virtù, per cui:

I.) Quando in gioco sono i desideri e i piaceri naturali di carattere fisico-corporale l’azione della temperanza si riversa

«nelle virtù dell'astinenza, della sobrietà, della castità e della pudicizia»[209].

II.) Quando invece si tratta dei desideri propri della psiche umana, scopriamo diverse modalità. Se la conoscenza inculca pensieri di superbia e autosufficienza per le conquiste scientifiche o per i successi letterari, allora la virtù della temperanza si traduce nella virtù dello studio, cioè un vero amore alla conoscenza, il quale consente di riconoscere la grandezza della scienza e delle arti letterarie come continuo svelamento della verità. Se invece subentrano stati d’animo di acredine che provocano all’ira o alla vendetta, la temperanza compie il grande passo di accogliere e fare propria la virtù della mansuetudine. Se invece subentrassero sentimenti e manie di grandezza, attribuendo a se stessi qualità e doti inesistenti, o, qualora queste ci fossero realmente ma si trascurasse la loro origine e il loro pregio in Dio, così da esigere dalle altre persone onori e riconoscimenti non dovuti, allora la temperanza indossa l’ordinato e moderato vestito dell’umiltà.

III.) I desideri interiori disordinati, che hanno il loro principio ed inizio negli stati d’animo o nelle varie sensazioni interiori, producono un movimento scomposto anche esteriormente sia nelle movenze del corpo, come nella manipolazione delle cose materiali. In questo caso la temperanza «prende il nome di modestia, di decenza, di urbanità, di affabilità, di eutrapelia[210], di parsimonia, ecc.»[211].

            Ci soffermiamo infine su di una amabile riflessione sui pregi della temperanza, i quali consistono in una moderazione e in una proporzionata misura in tutto ciò che viene fatto, tanto da suscitare gioia e diletto anche solo nell’osservare il modo di atteggiarsi e di comportarsi della persona. Questa eleganza nei portamenti e questa gentilezza nei movimenti ha portato i credenti ad attribuire alla virtù della temperanza «la dote della bellezza spirituale»[212]. Platone esprimeva questo concetto asserendo che «la temperanza consiste nel fare ogni cosa in modo ordinato e tranquillo, sia che si tratti di camminare per strada, che di conversare e di qualsiasi altra azione»[213].

 

*   *   *

 

            Vorremmo chiudere questo capitolo sulle virtù cardinali con una apprezzabile e appropriata citazione di sant’Agostino che troviamo proprio a conclusione di queste virtù nel Catechismo della Chiesa Cattolica. «Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore che obbedisce a lui solo (e questa è la giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla menzogna (e questa è la prudenza)»[214].

 


CONCLUSIONE

 

«È principalmente la virtù quella che viene insegnata dal cristianesimo, cioè la virtù perfetta, quella che rende soave il movimento della macchina sociale, e che provvede alla conservazione di una macchina così importante»[215].

 

 

            Il lungo percorso di analisi e riflessione dei capitoli precedenti ci ha portati ad inserire la virtù tanto nella vita della persona come nell’esistenza della società. L’unico vero progresso possibile per l’umanità è quello morale. Ma non vi può essere progresso morale senza il riconoscimento pratico della virtù. Uno sguardo alla società odierna, super-tecnologica, globalizzata e materialistica, ma povera di principi etici e ignara delle virtù morali, può portare a pessimismo, amarezza e sfiducia. La constatazione di come è la società ai nostri giorni, non deve farci dimenticare di come ‘dovrebbe essere’. Conservare l’idealità di una società giusta, onesta e virtuosa, suscita la domanda: “Come e dove cominciare?”.

            La risposta di Rosmini è indicativa e concreta:«Ed è certamente l’educazione delle generazioni future uno di quei preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto dalle estreme sciagure, e fargli acquistare un aspetto meno odioso, per così dire, agli occhi dell’onnipotente: è l’educazione quella che può cogliere i frutti della vittoria e riparare le devastazioni della guerra; quella che può riportare alla luce la timida virtù rinserrata nei cuori, e restituire ad essa la guida del mondo intero, sia del mondo visibile che di quello invisibile»[216].

            Bisogna amare la conoscenza non fine a se stessa, ma come mezzo per giungere alla Verità, cioè a Dio. La razionalità, usata ordinatamente, permette di evolvere e accrescere le conoscenze naturali, e quando la ragione viene illuminata dalla fede, allora in questo caso si è introdotti nelle verità soprannaturali. E come la pienezza della rivelazione è la persona di Gesù Cristo, essendo Cristo la Verità, così le decisioni e le azioni dell’uomo non possono essere disgiunte dall’essere conosciuto. Se la Verità è lo stesso maestro Gesù Cristo, la Carità invece è la persona dello Spirito Santo. L’azione della Verità e della Carità è talmente invasiva che: «non vi è parte dell’attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi»[217].

            Tuttavia, nel credente, la presenza del Verbo e l’azione dello Spirito non devono mai far dimenticare che la minaccia del peccato è sempre in agguato. Ed il peccato ha la sua origine in un errore di giudizio, in una volontà ingannata da false valutazioni, in una incapacità ad usare rettamente la ragione umana. Da qui l’accorato appello a prendere coscienza che «è necessario che tutti i buoni, i quali possono e sanno, diano mano pronta e concorde a ricostruire la scienza stessa, per ricostruire quindi la morale, per ricostruire finalmente la società scomposta e sconnessa»[218].

            Notiamo come la santità non può essere una meta da raggiungere isolatamente, in maniera individualistica. La santità richiede la bontà e si è veramente buoni quando ci si lascia muovere dalla carità intelligente per ridare ordine agli scompensi morali della società, dato che «chi volesse assegnare la principale ragione pratica della disunione degli uomini presenti nelle nazioni cristiane, e questa scandalosa mancanza di benevolenza fra loro la troverebbe in questo; che non si pensa abbastanza»[219].

            Affidiamo la sintesi conclusiva ad un eminente rosminista, il quale intrecciando le parole di Rosmini alle proprie, ribadisce che solo nella ‘virtù’ si trova il fulcro di ogni onesta società: «La vera garanzia della società civile si trova per Rosmini nella “VIRTÙ praticata senza limitazione”, che è anche “la suprema forza sociale”; il Cristianesimo e il cattolicesimo, come sua autentica espressione, sono il vero sostegno di quella virtù, a patto, però, di “rendere lo stesso cattolicesimo più e più puro nelle menti, più e più profondo nei cuori, più e più effettivo nella pratica”[220].



[1] M. A. Raschini, Fondamenti della gnoseologia critica contemporanea, L’Aquila-Roma, Japadre Editore, 1992, p. 10. Nostro il corsivo.

[2] In questo nostro scritto tratteremo esclusivamente del concetto di virtù in relazione al pensiero di Antonio Rosmini. Per quanto riguarda le virtù vissute e testimoniate dal pensatore trentino rimandiamo al volume: F. Paoli, Antonio Rosmini. Virtù quotidiane, a cura di M. M. Riva, Verona, Fede & Cultura, 2007.

[3] A. Rosmini, Compendio di etica e breve storia di essa, a cura di M. Manganelli = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 29, Roma 1998, n. 523, p. 173-174.

[4] A. Rosmini., Conferenze spirituali, nel vol. Id., Massime di Perfezione Cristiana, a cura di A. Valle = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 49, Roma 1976, p. 221.

[5] Le Massime di perfezione di Antonio Rosmini desiderano concentrare in sei ‘principi-guida’ l’insegnamento morale di tutto il messaggio evangelico.

[6] Op. cit., p. 59.

[7] A. Rosmini, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 23, Roma 1990, p. 54.

[8] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 514, p. 171.

[9] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 324.

[10] Op. cit., p. 96.

[11] Op. cit., p. 97.

[12] Ibidem.

[13] Op. cit., p. 38.

[14] A. Rosmini, Della educazione cristiana. Sull’unità della educazione, a cura di L. Prenna = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 31, Roma 1994, p. 339.

[15] Op. cit., p. 340.

[16] A. Rosmini., Massime di Perfezione, p. 33.

[17] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 532, pp. 176-177.

[18] Op. cit., n. 530, p. 176.

[19] Op. cit., n. 530, p. 176.

[20] Lc 10,42.

[21] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 530, p. 176.

[22] Ibidem.

[23] A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, a cura di U. Muratore = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 39-40, Roma 1983, p. 84. Una puntuale analisi sul concetto morale nel pensiero di Antonio Rosmini viene affrontato e sviluppato con perizia e profondità nel vol. C. Bergamaschi, L’essere morale nel pensiero filosofico di Antonio Rosmini, Stresa, La Quercia Edizioni, [1982].

[24] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 559, p. 170.

[25] A. Rosmini, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, a cura di N. Galantino, Cinisello Balsamo MI, Ed. San Paolo, 1997, n. 8, p. 123.

[26] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 163.

[27] Ibidem.

[28] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 78, p. 51.

[29] Ibidem.

[30] Op. cit., n. 1, p. 29.

[31] Op. cit., n. 3, p. 29

[32] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 108.

[33] Cf. A. Rosmini, L’introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, a cura di A. Capuzzi, Roma, Città Nuova, 2002, pp. 236-237.

[34] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 51.

[35] L’eudemonia (di cui deriva l’aggettivo eudemonologico) è «la felicità intesa come scopo fondamentale e ultimo dell’agire umano». N. Zingarelli, loZingarelli, «Dizionario della lingua italiana», Bologna, Zanichelli Editori, 2011, p. 838.

[36] T. Manfredini, Il riconoscimento dell’essere nell’etica e nella politica di Rosmini, nel vol. misc. Rosmini: Etica e politica. Filosofia pratica o filosofia della pratica?, Atti del XXIV Corso della “Cattedra Rosmini”, 29 agosto-2 settembre 1990, a cura di P. Pellegrino, Stresa-Milazzo, Sodalitas-Spes, 1991, p. 110.

[37] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 101.

[38] Op. cit., p. 103.

[39] Ibidem.

[40] Op. cit., p. 104.

[41] A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 33, Roma 1997, p. 386.

[42] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 2, Roma 1979, p. 132.

[43] Cf. op. cit., p. 320.

[44] Op. cit., p. 323.

[45] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 317.

[46] Fides et Ratio, n. 64.

[47] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, p. 132.

[48] Ibidem.

[49] Op. cit., p. 203.

[50] Op. cit., p. 204.

[51] Op. cit., p. 29.

[52] A Niccolò Tommaseo a Firenze, da Milano l’8 novembre 1827. Epistolario completo di Antonio Rosmini-Serbati prete roveretano, II, Tipografia G. Pane, Casale Monferrato 1887, p. 340.

[53] Ibidem.

[54] C. Rebora, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini-V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1988, p. 212.

[55] «O gloriosa donna / la virtù senza di te muore / la tua potenza freni ogni desiderio esagerato / e tu ricolma l’anima di ogni esimia virtù». G. Lorizio, Un manoscritto giovanile Rosminiano: IL GIORNO DI SOLITUDINE. Trascrizione e interpretazione, Roma, P.U.L., 1993, p. 111.

[56] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 166.

[57] Cfr. Op. cit., pp. 166-167.

[58] Op. cit., p. 168.

[59] Ibidem.

[60] Ibidem.

[61] Op. cit., p. 174.

[62] Ibidem.

[63] Op. cit., p. 175. Nostro il corsivo.

[64] Ibidem.

[65] Cf. Op. cit., pp. 175-176.

[66] A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 153.

[67] Op. cit., p. 453.

[68] Op. cit., p. 454.

[69] Ibidem.

[70] Ibidem.

[71] Op. cit., p. 456.

[72] Ibidem.

[73] Op. cit., p. 384.

[74] Op. cit., pp. 384-385.

[75] Op. cit., p. 385.

[76] A. Rosmini, Il Comunismo e il Socialismo. Ragionamento letto nell’Accademia de’ Risorgenti di Osimo, nel vol. Id., Opuscoli politici, a cura di G. Marconi = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 37, Roma 1978, p. 88.

[77] Ibidem.

[78] A. Rosmini, Principi della scienza morale, pp. 178-179.

[79] Op. cit., p. 180.

[80] Op. cit., pp. 179-180.

[81] A. Rosmini, Filosofia del diritto, I, Intra, Tipografia di Paolo Bertolotti, 18652, p. 122.

[82] Siamo coscienti che il termine “soprannaturale” trovi pochissimi seguaci nella teologia contemporanea, e che venga considerato un sostantivo ambiguo. Tuttavia pensiamo che nel contesto del pensiero Rosminiano conservi la sua originaria chiarezza e comprensibilità. Non ci è sembrato opportuno affiancarci ai tentativi di ‘modernità’ di alcuni autori che, nel desiderio di rendersi vicini e comprensibili dalla società post-industriale, hanno coniato espressioni,secondo loro, meglio percepibili dall’uomo d’oggi, come ad esempio ‘sopra-polare’ (Karl Heim), ‘sovra-storico’ (Reinhold Niebuhr), ‘sopra-organico’ (Lionel Thornton). Tali termini, pur nella loro immediatezza, non veicolano tuttavia il significato profondo, dogmatico e sovrastrutturale del linguaggio tradizionale.

[83] A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 131.

[84] A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, libri quattro, a cura di F. Evain = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 24, Roma 1981, n. 832, p. 460.

[85] A. Rosmini, Filosofia del diritto, I, n. 52, p. 225. Nel testo rosminiano è talmente enfatica e chiara la presentazione di questa dignità che crediamo opportuno riportare a seguito il passo completo del filosofo trentino: «52. Il principio attivo supremo, base della persona, è informato dal lume della ragione, dal quale riceve la norma della giustizia: egli è propriamente la facoltà delle cose lecite. Ma poiché la dignità del lume della ragione (essere ideale) è infinita, perciò niente può state sopra al principio che opera di sua natura dietro un maestro e signore di dignità infinta; quindi viene, che egli è principio naturalmente supremo, di maniera che niuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito».

[86] A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 138.

[87] A. Rosmini, Filosofia del diritto, II, n. 641, p. 186.

[88] Ibidem.

[89] Cf. Op. cit., n. 642, pp. 186-187.

[90] Op. cit., n. 643, p. 187.

[91] O.c., n. 645, p. 188.

[92] Ibidem.

[93] O.c., n. 646, p. 188-189.

[94] D. Alighieri, Paradiso, c. XXXIII, v. 145.

[95] A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, p. 184.

[96] Op. cit., p. 185.

[97] Cf. Op. cit., pp. 184-185.

[98] Op. cit., p. 84.

[99] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 40.

[100] Op. cit., pp. 40-41.

[101] Op. cit., p. 185.

[102] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 514, p. 29.

[103] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 219.

[104] Op. cit., p. 220.

[105] A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 855, p. 468.

[106] Cfr. A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 340.

[107] A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, p. 184.

[108] A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, Roma, Tipografia Forzani E. C., 1898, n. 198.

[109] Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), 1992, , n. 1814.

[110] A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, n. 200.

[111] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, p. 54.

[112] Op. cit., n. 43, p. 82.

[113] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, n. 39, p. 75.

[114] Come premessa può essere illuminante il chiarimento di Rosmini sulla ‘rivelazione interna di Dio’: «Il cristianesimo fece conoscere che oltre la rivelazione esterna che annunzia esplicitamente le cose da credersi sull’autorità infallibile di Dio rivelante, c’è un lume interiore comunicato agli uomini gratuitamente e sopra-naturalmente, il quale è una specie di rivelazione interna di Dio. In virtù di questo lume gli uomini credono alle verità che vengono loro proposte esternamente a credere, e anch’esso può dirsi un’autorità, e non può mai discordare dalla rivelazione esterna proposta dalla Chiesa»[114]. A. Rosmini, Logica. Libri tre, a cura di V. Sala = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 8, Roma 1984, n. 214, p. 103.

[115] A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, p. 250.

[116] Op. cit., p. 251.

[117] Ibidem.

[118] Op. cit., p. 66.

[119] San Giacomo afferma esplicitamente che «la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa» (Gc 2,17).

[120] Rosmini al sacerdote Andrea Dadone, a Pinerolo. La lettera, inviata da Stresa, porta la data del13 gennaio 1848. Epistolario completo, X, 1892, p. 222.

[121] Op. cit., p. 222.

[122] Cf. A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, p.65.

[123] Cf. Op. cit., pp. 102-103.

[124] Op. cit., p. 104. Rosmini spiega il motivo della sua dichiarazione: «Dicendo “per grazia” s'intende la potenza del credere prodotta in noi soprannaturalmente dall'azione della grazia. Essendo nostra questa potenza, uscendo dall'essenza dell'anima nostra, nostri debbono essere gli atti di questa potenza, e per esser nostri debbono procedere dalla nostra volontà: quindi la fede è il primo atto della potenza in noi creata dalla grazia, perché è il primo atto della nuova volontà nostra».

[125] Op. cit., p. 103.

[126] Op. cit., p. 72.

[127] CCC, n. 1817. Rosmini offre la seguente definizione: «Che cosa è la Speranza? La Speranza è quella virtù soprannaturale, per la quale noi ci uniamo a Dio con lo sperare da lui la nostra eterna salute ed i mezzi per conseguirla, sì perché egli è un Dio buono, sì perché egli ci ha promesse queste cose». A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, n. 201.

[128] CCC, n. 1818.

[129] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 453.

[130] Ibidem.

[131] Ibidem.

[132] Op. cit., p. 455.

[133] A. Manzoni, La pentecoste, vv. 79-80. Rosmini cita questi versi nel testo: A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 457.

[134] Benedetto XVI, Spe salvi, n. 1.

[135] Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 2.

[136] CCC, n. 1822.

[137] CCC, n. 1823.

[138] A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, n. 202.

[139] Non è fuori luogo, data la sua importanza, riportare il brano in questione: «è questa arcana ma reale comunicazione di Dio all’uomo, che forma il dogma principale e fondamentale del Cristianesimo, l’essenza di questa religione». A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 456.

[140] A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, n. 203.

[141] A. Rosmini, Costituzioni dell’Istituto della Carità, a cura di D. Sartori = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 50, Roma 1996, n. 549.

[142] Ibidem.

[143] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, n. 106, p. 184.

[144] A. Rosmini, Teosofia, II, a cura di M.A. Raschini-P.P. Ottonello = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 13, Roma 1998, n.1017, p. 327.

[145] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, n. 101, p. 181.

[146] Op. cit., n. 100, p. 180.

[147] Op. cit., n. 106, p. 185.

[148] Rosmini a Edoardo Cester, consigliere generale d’America in Genova. La lettera è inviata da Stresa il 25 luglio 1844. Epistolario completo, VIII, 1897, p. 757.

 

[149] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 522, p. 173.

[150] CCC, n. 1827.

[151] CCC, n. 1828.

[152] CCC, n. 1805.

[153] CCC, n. 1806.

[154] Cf. A. Rosmini, Compendio di etica, n. 559, p. 183.

[155] Cf. Op. cit., nn. 561-562, pp. 183-184.

[156] A. Rosmini, Filosofia del diritto II, n. 2576, p. 930.

[157] A. Rosmini, Filosofia del diritto, I, p. 130.

[158] A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 122.

[159] A. Rosmini, Conferenze sui doveri ecclesiastici, Domodossola, Ed. Sodalitas, 1941, p. 349.

[160] Ibidem.

[161] Rosmini fa riferimento alla lettera di Giacomo 3,15-18, dove si parla della ‘sapienza’. Rosmini attribuisce alla ‘prudenza’ ciò che s. Giacomo riferisce alla ‘sapienza’.

[162] A. Rosmini, Conferenze sui doveri ecclesiastici, p. 351.

[163] Op. cit., p. 354. Nel citare il passo paolino, Rosmini conserva il significato originario del termine greco φρóνιμοι, che significa appunto “prudenti”.

[164] A. Rosmini, Trattato della coscienza morale, a cura di U. Muratore-S.F. Tadini = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 25, Roma 2012, nn. 406-411, pp. 251-252.

[165] CCC, n. 1807.

[166] A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 56.

[167] O.c., p. 110.

[168] A. Rosmini, Operette spirituali, a cura di A. Valle = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 48, Roma 1985, p. 26.

[169] Rosmini sintetizza il pensiero di s. Tommaso sulla ‘giustizia originale’: «Sotto l'espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose 1º l'elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto; 2º la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale; 3º l'ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. […] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l'umana persona nella natura umana esistente». A. Rosmini, Il razionalismo teologico, a cura di G. Lorizio = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 43, Roma 1992, n. 170, p. 191.

[170] Op. cit., n. 259, p. 295.

[171] O. cit., n. 264, p. 300.

[172] Cf. Op. cit., nn. 257-266, pp. 294-302

[173] Cfr. A. Rosmini, Manuale dell’esercitatore, a cura di F. Evain = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 51, Roma 1987, Appendice VII, pp. 260-262.

[174] A. Rosmini, Il razionalismo teologico, n. 274, p. 306.

[175] A. Rosmini, Risposta al finto Eusebio Cristiano, Milano, Tipografia e Libreria Boniardi-Pogliani, 1841, n. XVII, p. 40.

[176] Ibidem..

[177] A. Rosmini, Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee, n. 206.

[178] Rosmini riporta questa definizione nel vol.: A. Rosmini, Filosofia del diritto, I, p. 38.

[179] Op. cit., p. 99, nota 1.

[180] Ibidem.

[181] CCC, n. 2411.

[182] Ibidem.

[183] Ibidem.

[184] Cf. CCC, nn. 1939-1942.

[185] A. Rosmini, Teosofia, II, n 1054, p.370.

[186] Op. cit., n 1054, p. 371.

[187] Rosmini fa riferimento alle due espressioni sopra riportate: “oggettivamente giusto” e “la volontà che vuole questa giustizia oggettiva”.

[188] A. Rosmini, Teosofia, II, n 1054, p.371. Nostre le sottolineature.

[189] A. Rosmini, Massime di Perfezione Cristiana, pp. 37-40.

[190] A. Rosmini, Costituzioni, n. 5.

[191] A. Rosmini, Costituzioni, n. 5, E.

[192] A. Rosmini, Regole Comuni, II, n. 3.

[193] Ibidem.

[194] A don Giuseppe Gagliardi, arciprete di Agrano. Da Stresa, 29 agosto 1840. Epistolario completo, VII, 1891, p. 432.

[195] A. Rosmini, Regole Comuni, II, n. 1.

[196] A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, I, p. 84.

[197] R. Barrow, An Introduction to Moral Philosophy and Moral Education, London/New York, Routledge, 2007, p. 26. Nostra la traduzione. Il testo in inglese corre come segue: «However, it remains true that the perception that the world is on balance an evil place in which the bad often triumphs over the good is a powerful factor in suggesting to people that morality is not worth pursuing and need not to be taken too seriously».

[198] CCC, n. 1808.

[199] F. Paoli, Antonio Rosmini. Virtù quotidiane, p. 66.

[200] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 572, pp. 185-186.

[201] Cf. Op. cit., n. 572-575, pp. 185-186.

[202] Op. cit., n. 593, p. 189.

[203] Op. cit., n. 595, p. 189.

[204] Platone, Lachete, 192 d. Cf. Platone, Breviario, a cura di Claudio Marcellino, Ed. Rusconi, Milano 1995, p. 68.

[205] Platone, Protagora, 358 d. Cf. Platone, Breviario, p. 69.

[206] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 518, p. 172. Nostro il corsivo.

[207] CCC, n. 1809.

[208] A. Rosmini, Compendio di etica, n. 576, p. 186.

[209] Op. cit., n. 580, p. 187.

[210] L’eutrapelia (dal greco ευτραπελια, buona girata) è la virtù che dà il giusto spazio al gioco e al divertimento nella vita di una persona. Aristotele la chiamava il “mezzo d’oro”.

[211] Op. cit., n. 582, p. 188.

[212] Op. cit., n. 583, p. 188.

[213] Platone, Carmide, 159 b. Cf. Platone, Breviario, p. 68.

[214] CCC, 1809. La citazione è ripresa dal vol. Sant'Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae, 1, 25, 46: CSEL 90, 51 (PL 32, 1330-1331).

 

[215] A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 175.

[216] A. Rosmini, Sull’unità della educazione, nel vol. misc. A. Rosmini, Della educazione cristiana, p. 47.

[217] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, n. 101, p. 181.

[218] A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, I, a cura di G Messina = Opere Edite e Inedite di Antonio Rosmini 3-5, Roma 2003, p 97.

[219] A. Rosmini, Massime, p. 172.

[220] M. D’Addio, Introduzione, nel vol. A. Rosmini, Filosofia della politica, p. 18.