Stralci da “l’arte di ottenere ragione” di Shopenhauer

Traggo da Wikipedia e integro con link, stralci e commenti

Vedi anche

·         I 36 stratagemmi. L'arte cinese di vincere

·         Le astuzie dell'occidente. 36 stratagemmi di saggezza europea

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 25/10/2018; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

Pagine correlate: trucchi dialettici, inganni, significato delle parole

 

Gli stratagemmi

[CzzC: ad 11: “evitare dispute con persone come sono quasi tutti”. Trattasi di un’affermazione spiazzata dall’odierna civiltà occidentale, verso la quale l’autore non si sarebbe espresso in questi termini se l’avesse prevista configurata dall’attuale pervasività dei media comunicativi, della tecnologia, dell’istruzione dei beni di consumo, nonché dal suffragio universale. Se oggi non parli e disputi con quasi tutti, in modo da convincere la maggioranza dei votanti ad eleggere persone ragionevoli, rischi che il bene dei tuoi cari venga compromesso da decisioni irragionevoli di tali eletti se al momento di decidere non perseguissero il bene comune anche a costo di sacrifici e limitazioni che …]

 

I primi 9 stratagemmi sono in Parerga und Paralipomena 1851.

 

La dialettica eristica  è l'arte di disputare, e precisamente l'arte di disputare in modo da ottenere ragione, dunque per fas et nefas [con mezzi leciti e illeciti].2 Si può infatti avere ragione objective, nella cosa stessa, e tuttavia avere torto agli occhi dei presenti e talvolta perfino ai propri. Ciò accade quando l'avversario confuta la mia prova, e questo vale come se avesse confutato anche l'affermazione, della quale però si possono dare altre prove; nel qual caso, naturalmente, per l'avversario la situazione si presenta rovesciata: egli ottiene ragione pur avendo oggettivamente torto. Dunque, la verità oggettiva di una proposizione e la validità della medesima nell'approvazione dei contendenti e degli uditori sono due cose diverse. (A quest'ultima è rivolta la dialettica). I );i che cosa deriva tutto questo? Dalla naturale cattiveria del genere umano. Se questa non ci fosse, se nel nostro fondo fossimo leali, in ogni discussione cercheremmo solo di portare alla luce la verità, senza affatto DI (-occuparci se questa risulta conforme all'opinione presentata in precedenza da noi 0 a quella dell'altro: diventerebbe indifferente o, per lo meno, sarebbe una cosa del tutto secondaria. Ma qui sta il punto principale. L'innata vanità, particolarmente suscettibile per ciò che riguarda l'intelligenza, non vuole accettare che quanto da noi sostenuto in principio risulti falso, e vero quanto sostiene l'avversario. Se così fosse, ciascuno non dovrebbe fare altro che cercare di pronunciare soltanto giudizi giusti: quindi dovrebbe prima pensare e poi parlare. Ma, nei più, all'innata vanità si accompagna una loquacità e una slealtà connaturata. Essi parlano prima di avere pensato, e se anche poi si accorgono che la loro affermazione è falsa e hanno torto, deve nondimeno apparire come se fosse il contrario. L'interesse per la verità, che nella maggioranza dei casi è stato l'unico motivo per sostenere la tesi ritenuta vera, cede ora completamente il passo all'interesse della vanità: il vero deve apparire falso e il falso vero.

Tuttavia anche questa slealtà, anche l'insistere su una tesi che già a noi stessi appare falsa, può trovare una scusante: molte volte, all'inizio siamo fermamente convinti della verità della nostra affermazione; ma ora l'argomento dell'avversario sembra rovesciarla: abbandonando però subito la nostra causa, spesso ci accorgiamo poi che avevamo invece ragione; la nostra prova era falsa, ma per quella affermazione era possibile darne una giusta: l'argomento risolutore non ci era venuto in mente subito. Perciò, si afferma ora in noi la massima di continuare ugualmente a combattere contro l'argomento contrario, anche quando esso appare giusto e decisivo, confidando sul fatto che la sua pertinenza sia anch'essa soltanto apparente, e che durante la disputa ci verrà in mente un altro argomento per rovesciarlo, oppure per confermare altrimenti la nostra verità: siamo così quasi costretti, o almeno facilmente indotti, alla slealtà nel disputare. In questo modo, la debolezza del nostro intelletto e la stortura della nostra volontà si sorreggono a vicenda. Ne deriva che, di regola, chi disputa non lotta per la verità, ma per imporre la propria tesi, come prò ara et focis [per la casa e il focolare], e procede per fas et nefas, perché, come si è mostrato, non può fare diversamente. Dunque, di regola ciascuno vorrà far prevalere la propria affermazione, anche quando per il momento gli appare falsa o dubbia;3 e i mezzi per riuscirvi sono, in certa misura, offerti a ciascuno dalla propria astuzia e cattiveria: a insegnarli è l'esperienza quotidiana nel disputare. Ciascuno ha dunque la propria dialettica naturale, così come ciascuno ha una propria logica naturale. Ma la prima non è una guida altrettanto certa della seconda. Nessuno penserà o inferirà tanto facilmente contro le leggi della logica: falsi giudizi sono frequenti, falsi sillogismi estremamente rari. Perciò, non capita tanto facilmente che qualcuno mostri una deficienza di logica naturale; capita, invece, di riscontrare deficienze nella dialettica naturale: quest'ultima è una dote naturale distride in quella dialettica originaria e naturale il cui scopo è invece semplicemente l'avere ragione. Il compito principale della dialettica scientifica, così come la intendiamo noi, è perciò quello di presentare e analizzare gli stratagemmi della slealtà nel disputare, affinché nelle dispute reali li si riconosca e li si annienti subito. Proprio per questo, nella sua esposizione, essa deve dichiaratamente assumere come proprio fine ultimo solo l'avere ragione, non la verità oggettiva. Per quanto abbia cercato in lungo e in largo, non mi risulta che sia mai stato fatto qualcosa in questo senso:7 si tratta quindi di un terreno ancora vergine. Per raggiungere lo scopo, si dovrebbe attingere all'esperienza, osservando il modo in cui, nelle dispute che si verificano spesso intorno a noi, questo o quello stratagemma viene adoperato dall'una e dall'altra parte in causa, quindi si dovrebbe ricondurre alla loro struttura generale gli stratagemmi che ritornano sotto altre forme, ed espone così certi stratagemata generali, utili poi sia per usarli a proprio vantaggio, sia per sventarli quando ne fa uso l'avversario.

Quanto segue va considerato come un primo tentativo.

 

LA BASE DI OGNI DIALETTICA

 

Innanzitutto bisogna considerare ciò che è essenziale in ogni disputa, ciò che veramente accade durante una disputa. L'avversario (o noi stessi, è uguale) ha presentato una tesi. Per confutarla ci sono due modi e due vie.

1)   / modi: a) ad rem, b) ad hominem o ex conces-sis: cioè noi mostriamo che la tesi non concorda con la natura delle cose, con la verità oggettiva assoluta, oppure che non concorda con altre affermazioni o ammissioni dell'avversario, cioè con la verità soggettiva relativa: quest'ultima è una dimostrazione solo relativa e non stabilisce nulla in merito alla verità oggettiva.

2)   Le vie: a) confutazione diretta, b) confutazione indiretta. La confutazione diretta attacca la tesi nei suoi fondamenti, quella indiretta nelle sue conseguenze: quella diretta mostra che la tesi non è vera, quella indiretta che essa non può essere vera.

a) Nella confutazione diretta possiamo fare due cose. O mostriamo che i fondamenti della sua affermazione sono falsi (nego majorem; minorem); oppure ammettiamo i fondamenti, ma mostriamo che l'affermazione non ne consegue (nego consequentiam), cioè attacchiamo la conseguenza, la forma dell'inferenza, b) Nella confutazione indiretta adoperiamo o Yapagoge o la istanza.

a) Apagoge: noi assumiamo la tesi dell'avversario come vera: poi mostriamo che cosa ne consegue se, unita a qualche altra proposizione riconosciuta come vera, la adoperiamo come premessa per un sillogismo da cui discende una conclusione palesemente falsa in quanto contraddice la natura delle cose o le altre affermazioni dell'avversario, ed è dunque falsa ad rem o ad hominem (Socrate in Ippia maggiore e altrove): di conseguenza anche la tesi era falsa. Infatti, da premesse vere possono conseguire solo proposizioni vere, mentre da premesse false non sempre conseguono conclusioni false. (Se essa contraddice addirittura una verità assolutamente indubitabile, allora abbiamo condotto l'avversario ad absurdum). P) L'istanza, èvotaoig, exemplum in contra-rium: confutazione della tesi generale mediante indicazione diretta di casi compresi nella sua enunciazione, per i quali però essa non vale. La tesi generale deve perciò essere falsa.

Questa è l'impalcatura di base, lo scheletro di ogni disputa: abbiamo dunque la sua osteologia. Infatti a ciò si riconduce in fondo ogni disputare: ma tutto questo può avvenire effettivamente o solo in apparenza, con ragioni autentiche o meno: e poiché su questo punto non è facile stabilire qualcosa di sicuro, le dispute sono lunghe e ostinate. Neppure nel dare istruzioni possiamo separare ciò che è vero da ciò che è apparente perché, per l'appunto, di questo i contendenti non sono mai certi in anticipo. Perciò io offro degli stratagemmi senza badare al fatto se objective si abbia ragione o torto: infatti non possiamo saperlo con certezza nemmeno noi stessi e deve essere stabilito proprio mediante la contesa. Del resto, in ogni disputa, o in ogni argomentazione in genere, bisogna essere d'accordo su qualche cosa che si prende come principio per giudicare la questione di cui si tratta: contra ne-gantem principia non est disputandum [non si disputi con uno che nega i princìpi di partenza].

 

STRATAGEMMA N. 1

L'ampliamento. Portare l'affermazione dell'avversario al di fuori dei suoi limiti naturali, interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla; restringere invece la propria affermazione nel senso più circoscritto possibile e nei limiti più ristretti: perché quanto più un'affermazione diventa generale, tanto più essa presta il fianco ad attacchi. L'antidoto è la precisa formulazione del punctus o status controversiae.

Esempio 1. Io dissi: « Gli Inglesi sono la prima nazione nel genere drammatico ». L'avversarlo volle tentare una instantia e ribatté: « E noto che nella musica, e di conseguenza anche nell'opera, essi non hanno saputo combinare nulla». Io gli replicai ricordandogli « che la musica non è compresa nel genere drammatico; questo designa solo la tragedia e la commedia»: cosa che egli sapeva molto bene, e quindi tentava solo di generalizzare la mia affermazione in modo che comprendesse tutte le rappresentazioni teatrali, di conseguenza l'opera e la musica, per poi battermi con sicurezza. Se invece l'espressione da noi usata lo favorisce, si salvi la propria affermazione restringendola oltre la primitiva intenzione.

Esempio 2. A dice: « La pace del 1814 restituì persino a tutte le città anseatiche tedesche la loro indipendenza ». B dà la instantia in contrarium, cioè che con quella pace Dan-zica perse l'indipendenza conferitale da Bonaparte. A si salva così: « Ho detto tutte le città anseatiche tedesche: Danzica era una città anseatica polacca ». Questo stratagemma si trova già in Aristotele, Topici, Vili, 12.

Esempio 3. Lamarck (Philosophie zoologique, [Paris, 1809], voi. 1, p. 203) nega ai polipi ogni sensazione poiché privi di nervi. Ora, però, è certo che essi percepiscono, infatti seguono la luce mentre procedono con la loro tecnica di ramo in ramo; e afferrano la loro preda. Si è perciò supposto che in essi la massa nervosa sia diffusa in ugual misura nella massa dell'intero corpo e, per così dire, vi sia fusa assieme: infatti essi hanno evidentemente percezioni senza avere organi di senso distinti. Poiché ciò ribalta l'ipotesi di Lamarck, egli argomenta dialetticamente così: « Allora tutte le parti del corpo del polipo dovrebbero essere capaci di ogni specie di sensazione e anche di movimento, di volontà, di pensiero: allora il polipo avrebbe in ogni punto del suo corpo tutti gli organi dell'animale più completo: ogni punto potrebbe vedere, annusare, gustare, sentire e così via, anzi, pensare, giudicare, inferire: ogni particella del suo corpo sarebbe un animale completo e il polipo stesso starebbe al di sopra dell'uomo, poiché ogni sua cellula avrebbe tutte le facoltà che l'uomo ha solo nel suo insieme. Non ci sarebbe inoltre alcun motivo per non estendere quanto si afferma sui polipi anche alla monade, il più imperfetto di tutti gli esseri, e infine anche alle piante, le quali pure vivono, e così via ». Con l'uso di tali stratagemmi dialettici uno scrittore tradisce l'intima consapevolezza di avere torto. Poiché si è detto: « Il suo intero corpo è sensibile alla luce, ed è perciò di natura nervosa », egli ne evince che l'intero corpo pensa.

 

 

STRATAGEMMA N. 2

Usare l'omonimia per estendere l'affermazione presentata anche a ciò che, al di là del nome uguale, poco o nulla ha in comune con la cosa in questione; poi darne una confutazione lampante, e così fingere di avere confutato l'affermazione. Nota: synonyma sono due parole indicanti il medesimo concetto; homonyma due concetti indicati dalla medesima parola (vedi Aristotele, Topici, I, 13). Profondo, tagliente, alto, usati ora per corpi ora per suoni, sono homonyma. Sincero e leale sono synonyma. Questo stratagemma può essere considerato identico al sofisma ex homonymia: tuttavia il sofisma palese dell'omonimia non trarrà seriamente in inganno.

Omne lumen potest extingui; Intellectus est lumen; Intellectus potest extingui*

Qui si nota subito che ci sono quattro termini: lumen in senso proprio e lumen inteso in senso figurato. Ma nei casi sottili questo sofisma inganna certamente, soprattutto dove i concetti indicati dalla medesima espressione sono affini e si sovrappongono l'uno all'altro.

Esempio 1. (I casi inventati appositamente non sono abbastanza sottili da essere ingannevoli; bisogna dunque trarli dalla propria esperienza concreta. L'ottimo sarebbe poter distinguere ogni stratagemma con un nome

* Ogni lume può essere spento; / L'intelletto è un lume; 7 L'intelletto può essere spento.

conciso e calzante, a cui si potrebbe ricorrere, al momento opportuno, per respingere in un batter d'occhio l'uso di questo o quello stratagemma).

A: « Lei non è ancora iniziato ai misteri della filosofia kantiana».

B: « Ah, dove ci sono misteri, io non voglio saperne nulla ».

Esempio 2. Io biasimavo il principio d'onore, giudicando incomprensibile che chi subisce una offesa perda l'onore a meno che non la ricambi con una offesa maggiore o che non lavi l'onta con il sangue, quello del nemico o il proprio; come ragione addussi che il vero onore non può essere ferito da ciò che si subisce, ma soltanto da ciò che si fa; perché a chiunque di noi può succedere di tutto. L'avversario attaccò direttamente la mia ragione: egli mi dimostrò in modo lampante che se si calunniasse un commerciante dicendo che imbroglia o commette illegalità, o che è negligente nel suo mestiere, questo sarebbe un attacco al suo onore che qui verrebbe ferito unicamente per ciò che egli subisce, e che egli potrebbe ripristinare soltanto facendo punire tale calunniatore o costringendolo a smentire l'accusa. Qui egli scambiò dunque, per l'omonimia, l'onore civile, che si chiama altrimenti buon nome e che viene offeso col discredito, con il concetto di onore cavalleresco, chiamato anche point d'honneur e che viene offeso con le ingiurie. E poiché un attacco al primo non può essere trascurato, ma deve essere respinto con la pubblica confutazione, con lo stesso diritto anche un attacco al secondo non dovrebbe rimanere ignorato, ma dovrebbe essere respinto con un'ingiuria più forte e con il duello. Dunque: una confusione di due cose essenzialmente diverse favorita dall'omonimia della parola onore: e così l'omonimia dà origine a una mutatio contro-versiae.

venturo a confutare ciò ad rem, ma si contentò di proporre questargumentum ad hominem: io avevo appena lodato i quietisti, e anch'essi avevano scritto molte cose insensate. Ammisi questo fatto, ma corressi l'avversario dicendo che non lodo i quietisti come filosofi o scrittori, cioè non per le loro imprese teoretiche, ma soltanto come uomini, per il loro agire, solo dal punto di vista pratico: nel caso di Hegel invece si parla di imprese teoretiche. L'attacco venne così parato.

 

 

STRATAGEMMA N. 3

 

Prendere l'affermazione8 presentata in modo relativo, xatà ti, relative, come se fosse presentata universalmente, simpliciter, à-rtXcòg, absolute, o almeno intenderla sotto tutt'altro aspetto e confutarla poi in questo secondo senso. L'esempio di Aristotele è: il moro è nero, ma quanto ai denti è bianco: dunque egli è allo stesso tempo nero e non nero. E un esempio inventato, che non ingannerebbe sul serio nessuno: prendiamone invece uno dall'esperienza concreta.

Esempio. In una conversazione di filosofia ammisi che il mio sistema difende e loda i quietisti. Poco dopo il discorso cadde su Hegel, e io affermai che la maggior parte delle cose da lui scritte sono insensate o, almeno, che molti passi dei suoi scritti sono tali che l'autore butta lì le parole e il senso deve mettercelo il lettore. L'avversario non si av-

 

I primi tre stratagemmi sono affini: essi hanno in comune il fatto che l'avversario parla in realtà di qualcosa d'altro rispetto a ciò che è stato affermato: si incorrerebbe dunque in una ignoratio elenchi [ignoranza della confutazione] se ci si facesse liquidare da tali stratagemmi. Infatti, in tutti gli esempi presentati, quello che dice l'avversario è vero: non è però in contraddizione effettiva ma solo apparente con la tesi; chi è da lui attaccato quindi nega la consequenzialità della sua conclusione: cioè che dalla verità della sua tesi discenda la falsità della nostra. Si tratta dunque di una confutazione diretta della sua confutazione per negatio-nem consequentiae.

Non ammettere premesse vere poiché se ne prevede la conseguenza. Come antidoto dunque i due seguenti mezzi, le regole 4 e 5.

 

STRATAGEMMA N. 7

Quando la disputa è condotta in modo piuttosto rigoroso e formale e ci si vuole far intendere molto chiaramente, colui che ha presentato l'affermazione e deve dimostrarla procede contro l'avversario ponendo domande, per concludere la verità dell'affermazione dalle stesse ammissioni dell'avversario. Questo metodo erotematico era particolarmente in uso presso gli antichi (si chiama anche metodo socratico): ad esso si rifa il presente stratagemma e alcuni che seguiranno più avanti. {Completamente e liberamente rielaborato dal capitolo 15 del Liber de elen-chis sophisticis di Aristotele). Domandare in una sola volta e in modo particolareggiato molte cose, così da occultare ciò che in realtà si vuole che venga ammesso. Esporre invece rapidamente la propria argomentazione a partire da ciò che è stato ammesso: così coloro che sono lenti di comprendonio non riescono a seguire esattamente e non si accorgono di eventuali errori o lacune nell'argomentazione.

 

STRATAGEMMA N. 8

Suscitare l'ira dell'avversario, perché nell'ira egli non è più in condizione di giudicare rettamente e di percepire il proprio vantaggio. Si provoca la sua ira facendogli apertamente torto, tormentandolo e, in generale, comportandosi in modo sfacciato.

 

STRATAGEMMA N. 9

 

Porre le domande non nell'ordine richiesto dalla conclusione che si deve trarre, ma con spostamenti di ogni genere: l'avversario non capisce allora dove si voglia andare a parare e non è in grado di prevenire: ci si può anche servire delle sue risposte per trarne conclusioni diverse, perfino contrarie, a seconda delle risposte. Questo stratagemma è affine al quarto stratagemma in quanto bisogna mascherare il proprio modo di procedere.

 

 

STRATAGEMMA N. 10

 

Ci si accorge che l'avversario risponde di proposito negativamente alle domande, perché la risposta affermativa potrebbe essere utilizzata per la nostra tesi. In tal caso bisogna chiedere il contrario della tesi di cui ci si vuole servire come se si volesse la sua approvazione, o almeno sottoporgli ambedue le tesi, in modo che egli non si accorga di quale si vuole che lui affermi.

 

 

STRATAGEMMA N. 11

 

Se noi facciamo un'induzione, e l'avversario ci concede i singoli casi attraverso i quali deve essere attuata, non dobbiamo chiedergli se concede anche la verità generale che rivale: perciò essa viene completamente demolita. Sennonché qui possono verificarsi inganni: perciò quando l'avversario muove istanze dobbiamo stare attenti a quanto segue: 1) se l'esempio sia effettivamente vero: ci sono problemi la cui unica soluzione autentica è che il caso non è vero: per esempio molti miracoli, storie di spiriti, e così via; 2) se rientri effettivamente nel concetto della verità presentata: spesso è così solo in apparenza e per chiarirlo è necessaria una precisa distinzione; 3) se sia effettivamente in contraddizione con la verità presentata: spesso è così solo in apparenza.

 

 

STRATAGEMMA N. 26

Un tiro brillante è la retorsio argumenti: quando l'argomento che l'avversario vuole usare a proprio vantaggio può essere usato meglio contro di lui. Per esempio egli dice: « E un bambino, bisogna pur concedergli qualcosa»; retorsio: «Proprio perché è un bambino bisogna castigarlo, affinché non perseveri nelle sue cattive abitudini».

 

 

STRATAGEMMA N. 27

 

Se, di fronte a un argomento, l'avversario inaspettatamente si adira, allora bisogna incalzare senza tregua con quell'argomento: non soltanto perché va bene per farlo montare in collera, ma perché si deve supporre di aver toccato il lato debole del suo ragionamento, e di potergli nuocere, a questo punto, ancor più di quanto si possa credere in un primo tempo.

 

 

STRATAGEMMA N. 28

 

Questo stratagemma lo si può adoperare principalmente quando persone colte disputano davanti ad ascoltatori incolti. Quando non si dispone di alcun argumentum ad rem e nemmeno di uno ad hominem, allora se ne fa uno ad auditores, cioè si avanza una obiezione non valida, di cui però solo un esperto vede l'inconsistenza: ma, mentre l'avversario è un esperto, tali non sono gli ascoltatori. Ai loro occhi egli viene dunque battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a porre in una luce ridicola la sua affermazione. A ridere la gente è subito pronta, e quelli che ridono li si ha dalla propria parte. Per mostrare che l'obiezione è nulla, l'avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione e risalire ai princìpi della scienza, o cose del genere: ma se lo fa, non trova facilmente ascolto.

Esempio. L'avversario dice: nella formazione della crosta rocciosa archeana, la massa dalla quale si cristallizzò il granito e tutta la roccia restante era liquida a causa del calosulta da questi casi; dobbiamo invece introdurla in seguito come già stabilita e concessa, perché può anche accadere che egli creda di averla concessa, e la stessa impressione avranno anche gli ascoltatori, i quali si ricordano delle molte domande sui casi singoli, che devono pure avere condotto allo scopo.

 

 

STRATAGEMMA N. 12

 

Qualora il discorso verta su un concetto generale che non ha alcun nome, ma che deve essere designato tropicamente per mezzo di una similitudine, noi dobbiamo scegliere subito la similitudine in maniera tale che essa sia favorevole alla nostra affermazione. Così, per esempio, i nomi con cui sono designati i due partiti politici in Spagna, serviles e liberales, sono stati certamente scelti da questi ultimi.

Il nome protestanti è scelto da questi, e così il nome evangelici; il nome eretici, invece, è scelto dai cattolici.

Vale per i nomi di cose anche quando essi sono più appropriati: ad esempio, se l'avversario ha proposto un cambiamento, lo si chiami innovazione, perché si tratta di una parola odiosa. Ci dobbiamo comportare in modo contrario se siamo noi ad avanzare la proposta. Nel primo caso si chiami l'opposto «ordine costituito», nel secondo una «zavorra». Ciò che una persona disinteressata e imparziale chiamerebbe « culto » o «pubblica dottrina della fede», uno che vuole parlarne a favore lo chiama « devozione», «pietà», un avversario «bigotteria», «superstizione». In fondo si tratta di una sottile petitio principii: si introduce già nella parola, nella denominazione, ciò che si vuole provare, così da derivarlo poi con un semplice giudizio analitico. Ciò che l'uno chiama «assicurarsi della sua persona», « tenere in custodia », il suo avversario lo chiama « imprigionare ». Spesso un oratore tradisce già la sua intenzione nei nomi che dà alle cose. L'uno dice «i religiosi», l'altro «i preti». Fra tutti gli stratagemmi questo è quello che viene adoperato più spesso, istintivamente. Fervore religioso = fanatismo; passo falso o galanteria ss adulterio; espressioni equivoche = oscenità; squilibrio = bancarotta; « tramite influenze e conoscenze » = « tramite corruzione e nepotismo » ; « sincera riconoscenza » = « buon pagamento ».

 

 

STRATAGEMMA N. 13

 

Per fare in modo che l'avversario accetti una tesi, dobbiamo presentare la tesi opposta e lasciare a lui la scelta, avendo l'accortezza di esprimere tale opposto in modo assai stridente, cosicché, se non vuole essere paradossale, egli deve risolversi alla nostra tesi che invece appare molto probabile. Per esempio: egli deve ammettere che uno ha il dovere di fare tutto ciò che gli dice suo padre: allora noi chiediamo: « Bisogna essere in ogni cosa disobbedienti oppure obbedienti ai genitori? ». Oppure se di qualche cosa si dice «sovente», chiediamo se con « sovente » si intendono pochi casi oppure molti: l'avversario dirà «molti». E come il grigio che accostato al nero si può chiamare bianco, e accostato al bianco si può chiamare nero.

proponiamo all'accettazione o al rifiuto dell'avversario, come se volessimo trarne la dimostrazione, una tesi sì giusta, ma non del tutto evidente: se egli, sospettando qualcosa, la respinge, allora lo conduciamo ad absurdum e trionfiamo: se invece la accetta, intanto abbiamo detto qualcosa di ragionevole, e poi si vedrà. Oppure introduciamo qui lo stratagemma precedente e affermiamo ora che questo dimostra il nostro paradosso. Per farlo ci vuole la massima impertinenza: ma nella realtà succede: e c'è gente che tutto ciò lo pratica per istinto.

 

STRATAGEMMA N. 14

 

Un tiro impertinente è quando, dopo che l'avversario ha risposto a molte domande senza favorire la conclusione che abbiamo in mente, si enuncia e si esclama in modo trionfante, come dimostrata, la conclusione che si voleva trarre, sebbene essa non consegua affatto dalle sue risposte. Se l'avversario è timido o sciocco, e se noi abbiamo una buona dose di impertinenza e una buona voce, il tiro può riuscire proprio bene. Questo stratagemma rientra nella fallacia non causae ut causae [inganno tramite assunzione della non-causa come causa].

 

 

STRATAGEMMA N. 15

Se abbiamo presentato una tesi paradossale e ci troviamo in imbarazzo nel dimostrarla,

 

 

STRATAGEMMA N. 16

 

Argumenta ad hominem o ex concessis. Di fronte a un'affermazione dell'avversario dobbiamo cercare se per caso essa non sia in qualche modo, all'occorrenza anche solo apparentemente, in contraddizione con qualcosa che egli ha detto o ammesso in precedenza; oppure con i canoni di una scuola o di una setta che egli ha lodato e approvato; oppure con l'agire degli adepti di questa setta, o anche solo degli adepti falsi e apparenti; oppure con il suo stesso comportamento. Se per esempio egli difende il suicidio, allora gli si grida subito: « Perché non ti impicchi?». Oppure afferma che Berlino è un luogo di soggiorno sgradevole, e gli si grida subito: « Perché non te ne parti immediatamente con la prima diligenza? ».

In un modo o nell'altro, si riuscirà ben a cavar fuori un raggiro.

fisica non è credibile: allora parliamo della illusorietà del sapere umano e ne diamo ogni sorta di esempi.

 

 

 

 

STRATAGEMMA N. 17

 

 

 

Se l'avversario ci incalza con una controprova, spesso ci potremo salvare con una sottile distinzione a cui magari prima non abbiamo pensato, se la cosa in questione consente un doppio significato oppure un doppio caso.

 

 

STRATAGEMMA N. 18

 

Se ci accorgiamo che l'avversario ha messo mano a un'argomentazione con cui ci batterà, non dobbiamo consentire che arrivi a portarla a termine, ma dobbiamo interrompere, allontanare o sviare per tempo l'andamento della disputa e portarla su altre questioni: in breve, avviare una mutatio contro-versiae.

 

 

STRATAGEMMA N. 19

 

Se l'avversario ci sollecita esplicitamente a esibire qualcosa contro un determinato punto della sua affermazione, ma noi non abbiamo nulla di adatto, allora dobbiamo svolgere la cosa in maniera assai generale e poi parlare contro tali generalità. Ci viene chiesto di dire perché una determinata ipotesi

STRATAGEMMA N. 20

 

Quando abbiamo richiesto all'avversario le premesse ed egli le ha concesse, non dobbiamo chiedere anche la conclusione che ne consegue, ma tirarla direttamente noi stessi: anzi, anche se manca ancora l'una o l'altra delle premesse, noi la assumiamo come ugualmente concessa e tiriamo la conclusione. La qual cosa poi è un impiego della fallacia non causae ut causae.

 

 

STRATAGEMMA N. 21

 

Se ci accorgiamo che l'avversario fa uso di un argomento solo apparente o sofistico, possiamo certo annullarlo mettendone in luce la capziosità e illusorietà, ma è meglio liquidarlo ricorrendo a un controargomen-to altrettanto sofistico e apparente. Infatti quello che importa non è la verità, ma la vittoria. Se egli, per esempio, avanza un argumentum ad hominem, è sufficiente infirmarlo con un controargomento ad hominem (ex con-cessis): e in generale, se se ne offre l'opportunità, è più breve presentare un argumentum ad hominem, anziché fare una lunga discussione sulla vera natura della cosa.

ciò pensarono di essersene disfatti. Quando però alcuni adepti della nuova scuola mostrarono loro che avevano proprio ragione e che davvero non la capivano, il loro umore ebbe un brusco cambiamento. Questo stratagemma si può adoperare solo laddove si sia sicuri di essere decisamente più stimati dell'avversario presso l'uditorio. Per esempio: un professore contro uno studente. In realtà rientra nello stratagemma precedente ed è un modo particolarmente malizioso di far valere la propria autorità in luogo delle ragioni. Il tiro contrario è: « Mi permetta, con il Suo acume dev'essere un'inezia capirlo, e può solo esser colpa della mia cattiva esposizione » — poi sbattergli la cosa sul muso in modo che, nolens volens, egli debba capirla, e risulti chiaro che prima, effettivamente, era lui a non averla capita. Così l'argomento è ritorto: lui voleva insinuare nei nostri confronti un non-senso: noi gli abbiamo dimostrato che era lui a non avere capito. Entrambi con squisita gentilezza.

 

 

STRATAGEMMA N. 32

 

Un modo spiccio per accantonare, o almeno rendere sospetta, una affermazione a noi contraria dell'avversario, è quello di ricondurla a una categoria odiata, anche se la relazione è solo di vaga somiglianza o è tirata per i capelli; per esempio: « Questo è manicheismo; questo è arianesimo; questo è pe-lagianesimo; questo è idealismo; questo è spinozismo; questo è panteismo; questo è brownianismo; questo è naturalismo; questo è ateismo; questo è razionalismo; questo è spiritualismo; questo è misticismo; e così via». Con ciò supponiamo due cose: 1) che quella affermazione è effettivamente identica a quella categoria, o che almeno è contenuta in essa, ed esclamiamo dunque: «Oh!, questa non è affatto nuova! »; 2) che questa categoria è già stata del tutto confutata e non può contenere una sola parola di vero.

 

 

STRATAGEMMA N. 33

 

« Ciò sarà anche vero in teoria; in pratica però è falso ». Con questo sofisma si ammettono le ragioni e tuttavia si negano le conseguenze; in contraddizione con la regola a ratione ad rationatum valet consequentia [da una ragione al suo effetto vige la consequenzialità]. L'affermazione pone una cosa impossibile: ciò che è giusto in teoria deve valere anche in pratica: se ciò non si verifica, allora c'è un errore nella teoria, qualche cosa è stato trascurato e non è stato calcolato e, di conseguenza, è falso anche nella teoria.

AGGIUNTE

 

 

I

Logica e dialettica furono adoperate come sinonimi già dagli antichi, sebbene Xoyi^e-aftcu, ripensare, riflettere, calcolare, e òiaXé-yeoflm, conversare, siano due cose molto diverse. Il nome dialettica (òiaXexuxr|,òiaX£x-ri-xf| jtQaYM.aT£Ía [trattazione dialettica], 6 iaXe>c-xixòc, àvr\Q [uomo dialettico]) venne usato per la prima volta da Platone (come informa Diogene Laerzio): e troviamo che nel Fedro, nel Sofista e nel settimo libro della Repubblica egli intende con essa l'uso corretto della ragione e l'essere esercitati nel medesimo. Aristotele adopera òiaXexxuta nello stesso senso: egli però (secondo Lorenzo Valla) avrebbe prima adoperato A,OYixri nel medesimo senso: troviamo nei suoi scritti 'koyix.aì òuaxEQELcii, cioè argutiae [difficoltà logiche, cioè cavillosità], jiqóxcloic, Xoyixt) [protasi logica], aJTOQÍa XoYixrj [aporia logica]. Il termine òiaXexTiJtrj sarebbe dunque più antico di XoYixri. Cicerone e Quintiliano adoperano dialéctica e logica nel medesimo significato generale. Cicerone dice nel Lucullo [Acade-micorwm libri, II, 28, 91]: Dialecticam inventarli esse, veri et falsi quasi disceptatricem [La dialettica fu inventata come colei che, per così dire, decide fra vero e falso]. Cicerone, Topica, 2: Stoici enim judicandi vias diligenter persecuti sunt, ea scientia, quam Dialecticen appellant [Gli stoici hanno infatti diligentemente perseguito i metodi del giudizio con l'aiuto di quella scienza che essi chiamano dialettica]. Quintiliano, De institutione oratoria [XII, 2]: itaque haec pars dialecticae, sive Mam disputatricem dicere malimus [da cui viene questa parte della dialettica o, come noi preferiamo dire, arte di disputare]: quest'ultima sembra dunque essere per lui l'equivalente latino di òi,a>i£XTixr|. (Tutto ciò secondo Petri Rami dialéctica, Audomari Talaei praelec-tionibus illustrata, 1569). Quest'uso delle parole logica e dialettica come sinonimi si è conservato anche nel Medioevo e nell'età moderna fino ad oggi. Tuttavia in età moderna, soprattutto in Kant, si è usato il termine « dialettica » più spesso in un senso deteriore come « arte sofistica di disputare » e perciò si è preferita la denominazione «logica», in quanto meno compromessa. Tuttavia entrambe di per sé significano la stessa cosa e negli ultimi anni si è tornati a vederle di nuovo come sinonimi.

 

II

E un peccato che fin dall'antichità dialettica e logica siano state adoperate come sinonimi, e che quindi io non sia così libero di separare il loro significato, come altrimenti vorrei, e definire la logica (da 'koyi'C.Ecr&ai, riflettere, calcolare - da Xóyog, parola e ragione, che sono inseparabili) come «la scienza delle leggi del pensiero, cioè del modo di procedere della ragione », e la dialettica (da òiaXÉyecfùai, conversare: ma ogni conversazione comunica o fatti o opinioni: è cioè o storica o deliberativa) come « l'arte di disputare » (intendendo questa parola in senso moderno). Quindi, la logica ha evidentemente un oggetto puramente a priori, determinabile senza l'intervento dell'esperienza, ossia le leggi del pensiero, il procedere che la ragione (il Xóyog) segue se è lasciata a se stessa e non è disturbata, cioè quando un essere razionale pensa da solo e non è tratto in errore da nulla. La dialettica invece tratterebbe della comunione di due esseri razionali, che di conseguenza pensano insieme, cosa da cui, non appena essi non concordino come due orologi sincronizzati, sorge una disputa, cioè una battaglia spirituale. Come pura ragione i due individui dovrebbero concordare. Le loro divergenze scaturiscono dalla diversità che è costitutiva dell'individualità, e sono dunque un elemento empirico. La logica, la scienza del pensiero, cioè la scienza del procedere della ragione pura, sarebbe dunque costruibile puramente a priori; la dialettica in gran parte solo a posteriori, dalla conoscenza, acquisita per esperienza, dei perturbamenti che il pensiero puro subisce — quando due esseri razionali pensano insieme - a opera della diversità dell'individualità, e dalla conoscenza dei mezzi che gli individui adoperano l'uno contro l'altro per far valere ciascuno il proprio pensiero individuale come puro e oggettivo. La natura umana comporta infatti che quando nel pensare in comune, nel òicdéyea'&ca, cioè nel comunicare opinioni (eccettuati i discorsi di tipo storico), A si accorge che i pensieri di B sul medesimo oggetto divergono dai suoi, egli non va per prima cosa a riesaminare il proprio pensiero per trovare l'errore, ma presuppone che questo si trovi nel pensiero dell'altro: cioè l'uomo è per natura prepotente, vuole aver ragione: e ciò che consegue da questa proprietà è l'insegnamento della disciplina che io vorrei chiamare dialettica e che tuttavia, per evitare malintesi, chiamerò dialettica eristica. Essa sarebbe dunque la dottrina del modo di procedere della naturale prepotenza umana.

 

1. Quale dialettica?

« Organo » della naturale cattiveria umana, indispensabile strumento per affrontare le discussioni con successo e potere così soddisfare la naturale prepotenza umana, insomma, la volontà di ottenere ragione indipendentemente dal fatto di averla: questo, e niente di più, è per Schopenhauer la dialettica. Di qui la denominazione del suo trattatello, dialéctica eristica, ossia una tecnica dell'argomentazione finalizzata all'unico scopo di ottenere la vittoria nel contendere (in greco: eqí^eiv), senza badare alla verità. Schopenhauer espose le idee poi confluite in questa sua operetta, mai pubblicata, nelle lezioni tenute in qualità di libero docente all'Università di Berlino, e le riespose più tardi nei Parerga e paralipo-mena.

Negli stessi anni e nella stessa città, anzi, nella stessa università, dall'alto della sua fama e della sua autorevole cattedra, Hegel sosteneva una idea di dialettica diametralmente opposta. La dialettica era per lui la forma stessa dello spiegarsi e svilupparsi dello spirito, secondo un percorso che attraverso le mille vie del reale si eleva fino all'Assoluto, e precisamente nella forma di quel sapere che si autocomprende come l'esplicarsi della totalità stessa. Ma il successo che gli arrideva fu troncato dalla morte prematura, per colera, che lo colse nel 1831, in seguito a una epidemia scatenatasi nella città. Schopenhauer, dal canto suo, pensò bene di evitare ogni rischio lasciando di gran fretta Berlino per Francoforte. Entrambi, ognuno a suo modo, avevano e hanno ottenuto ragione. L'idea hegeliana di dialettica, sia con la scuola di Hegel e con i vari hegelismi, sia attraverso il suo sviluppo nell'ambito del marxismo, ha goduto di un successo e di una diffusione senza pari, al punto da diventare non solo un sistema filosofico, ma una vera e propria visione del mondo. Ancora oggi, quando in filosofia si parla di dialettica, si pensa alla concezione di Hegel o alle sue filiazioni nel marxismo, quindi alla dialettica intesa come la struttura non solo del pensiero, ma anche della realtà che il pensiero conosce. Una concezione della dialettica, questa, che ha tenuto il campo per quasi due secoli, occupando in filosofia il valore semantico della stessa parola. L'idea schopenhaueriana di dialettica, dal canto suo, non ha particolare bisogno di seguaci né di cattedre o scuole di filosofia per affermarsi; essa riprende in fondo una concezione di dialettica più antica di ogni scuola, e le sue radici risalgono alle origini del pensiero occidentale, al mondo greco; anzi, al di là di questo, essa è radicata nella stessa condizione umana, al punto da essersi sedimentata anche nel linguaggio comune: qui la ritroviamo ancora oggi, visto che anche per noi, nel nostro parlare quotidiano, « dialettica » significa in generale abilità nel discutere, cioè proprio quello che ne dice Schopenhauer. Ma come è accaduto tutto questo? Come hanno potuto Schopenhauer e Hegel — che, tra l'altro, muovevano entrambi dallo stesso pensatore, cioè da Kant - arrivare a dialettiche tanto differenti, e per di più, ognuno con buone ragioni dalla propria parte?

2. Le nozze di Mercurio e Filologia

 

La storia era cominciata molto tempo prima, attraversando fasi e vicende innumerevoli e complesse, di cui non sempre è riconoscibile il filo conduttore unitario. Per cercare di fare un po' di luce, potremmo ricordare almeno alcune tappe essenziali di questa storia. Ottimo punto di partenza è un testo latino del V secolo d.C, di fondamentale importanza per la funzione-cerniera che svolse nella mediazione tra la cultura pagana tardo-antica, della quale fu espressione, e quella incipiente dell'Occidente cristiano, dalla quale fu profondamente recepito, godendo di una vasta e prolungata fortuna per tutto il Medioevo. Si tratta del De nuptiis Mercurìi et Phìlolo-giae del retore nordafricano Marziano Capella, nella quale troviamo, alle soglie della nostra era, una rappresentativa esposizione della dialettica e quindi una significativa testimonianza della trasmissione del corpus dialecticum tardo-antico all'Occidente latino.1

Si tratta di un testo che, in una forma letteraria mista di versi e prosa conforme alla tradizione della satira menippea, rappresenta l'ultimo tentativo compiuto dall'antichità pagana per offrire un compendio sistematico del complesso delle sette arti liberali, del tipo di quello fornito da Marco Terenzio Varrone nei suoi Disciplinarum libri IX, cioè di quella articolazione del sapere che rappresenta il canale più importante per la

 

1. L'opera può essere tenuta presente nell'edizione a cura di Adolf Dick, Teubner, Stutgardiae, 1925 (con addenda di Jean Préaux, ibid., 1969, e con addenda e corrigenda sempre di J. Préaux, ibid., 1978), oppure in quella più recente di James Willis, ibid., 1983.

 

 

 

di dover difendere o attaccare, cioè mettere alla prova una tesi. Certo, mentre l'uomo comune pratica la dialettica senza un metodo, il dialettico vero e proprio lo fa secondo una tecnica e una abilità argomentativa specificamente esercitata e sviluppata (Confutazioni sofistiche, 11, 172 a 23-36). Aristotele, dal canto suo, si vanta di avere fornito il primo trattato che sia mai stato scritto intorno ai metodi del buon argomentare (Confutazioni sofistiche, 34, 183 b 16-184 b 7), mentre in altri casi, ad esempio per la retorica, esisteva già una trattatistica precedente. Come è chiarito subito all'inizio della trattazione, la caratteristica specifica del sillogismo o ragionamento dialettico consiste dunque nell'infe-rire a partire da premesse « endossali », cioè da opinioni notevoli nel senso indicato, mentre il ragionamento scientifico, apodittico, inferisce a partire da premesse vere e prime, cioè evidenti di per sé e non in virtù di altro, e quello eristico da premesse che vengono ingannevolmente presentate come opinioni notevoli, ma che in realtà non lo sono (Topici, I, 1, 100 a 27-101 a 1). Aristotele menziona inoltre un'altra forma di ragionamento fallace, cioè il «paralogismo», la cui scorrettezza non nasce però dall'inganno, bensì da un errore, e che per questo va tenuto distinto dal sillogismo eristico. E altrove tratta di un ulteriore tipo di ragionamento, cioè il sillogismo retorico o « entimema », che si distingue dagli altri per la forma abbreviata, cioè generalmente per l'omissione di una premessa (che viene sottintesa).

Questa distinzione tra le diverse forme di ragionamento viene ripresa verso la fine del trattato, dove Aristotele propone di chiamare « filosofema » il sillogismo apodittico, « epicheirèma » (cioè argomentazione diretta contro un interlocutore) il sillogismo dialettico, « sofisma » il sillogismo eristico e « aporema » il sillogismo dialettico che conclude con una contraddizione, quindi con una confutazione (Topici, VIII, 11, 162 a 12-18).